laR+ Locarno Film Festival

‘Il cinema è creare mondi e decidere come abitarli’

Il regista britannico Ben Rivers, in Concorso con ‘Mare’s Nest’, racconta il suo ‘atto di resistenza immaginativa’: pensare l’impossibile

Ben Rivers and Moon Guo Barker
(lff)
12 agosto 2025
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«Nei miei film mi piace giocare con diversi strati di realtà, in modo che lo spettatore non sia mai del tutto sicuro di cosa stia guardando. Per me, il cinema è questo: creare mondi e decidere come abitarli». Il cinema di Ben Rivers si muove in una zona liminale, sospesa tra documentario e finzione, dove i confini si fanno sfumati, mobili, talvolta indecifrabili. Dopo aver esplorato paesaggi interiori e aver costruito nel tempo un linguaggio sempre più personale, il regista britannico è tornato al Festival di Locarno con ‘Mare’s Nest’, forse la sua opera più inquieta e aperta. Solo un anno fa aveva presentato ‘Bogancloch’, pellicola di rara delicatezza e profondità visiva, in cui riemerge Jake Williams, figura enigmatica e quasi archetipica che attraversa il suo cinema come una costellazione silenziosa.

‘Mare’s Nest’ sembra spingere ancora più in là di ‘Bogancloch’ la tensione tra finzione e realtà.

‘Mare’s Nest’ è forse il mio film più vicino alla finzione. Ma, allo stesso tempo, resta un documentario, perché pur mettendo in scena alcune situazioni, è come se fosse un lavoro su un gruppo di bambini che recitano. Nemmeno io saprei indicare con precisione dove passi il confine. Godard diceva che tutte le finzioni sono documentari e tutti i documentari sono finzioni, e trovo che questa ambiguità sia esattamente lo spazio che mi interessa: quel territorio sfumato in cui realtà e finzione si mescolano fino a dissolversi.

Il titolo da dove viene?

‘Mare’s Nest’ è un’espressione inglese ormai quasi scomparsa, che indica qualcosa di inspiegabile, una situazione apparentemente reale ma che, a ben vedere, non esiste affatto. Mi affascinava proprio per questo: rispecchia lo spirito del film. Nel mondo che ho immaginato non ci sono adulti, e non sappiamo perché. Nessuna spiegazione, nessuna risposta. Non volevo offrirne una. È un’assenza che resta lì, sospesa, irrisolta, come un ‘mare’s nest’, appunto: qualcosa che sfugge alla comprensione, ma che ci costringe a mettere in discussione ciò che vediamo. Il film è nato infatti durante la pandemia, osservando i bambini costretti a restare chiusi in casa, isolati nei loro appartamenti, davanti a uno schermo per ore. Una condizione assurda, disumana. Da lì è iniziata una riflessione più profonda: che mondo stiamo lasciando alle nuove generazioni? È una domanda che mi ossessiona. Oggi accadono cose impensabili: bambini sterminati quotidianamente a Gaza, un pianeta che si sgretola sotto i nostri occhi. Viviamo tempi terribili, e credo che serva un cambiamento radicale, forse persino una rivoluzione globale. ‘Mare’s Nest’ nasce da questa inquietudine: da un lato, il desiderio di proteggere; dall’altro, il bisogno urgente di immaginare. Di pensare l’impossibile. È questa la domanda che attraversa tutto il film.

Perché ha scelto di ambientare il film in un mondo privo di adulti?

L’idea nasce proprio da questa inquietudine: i bambini sono qualcosa di prezioso per tutti, e vederli completamente soli e totalmente liberi è una condizione ambivalente: da un lato c’è una forma di libertà quasi utopica; dall’altro, un senso costante di disagio, di instabilità. È uno scenario che solleva domande fondamentali: che tipo di realtà erediteranno? In che direzione stiamo andando? Non credo davvero che la soluzione sia cancellare gli adulti e ripartire da zero, ma quella provocazione contiene una verità profonda: la società in cui viviamo ha bisogno di essere radicalmente ripensata. Siamo immersi in un sistema talmente legato al capitalismo da rendere quasi impossibile immaginare alternative. Eppure è proprio quello che dobbiamo fare: immaginare l’impossibile. Uscire dai limiti di ciò che ci viene proposto come unica realtà. ‘Mare’s Nest’ è, in questo senso, una fantasia, ma anche un atto di resistenza immaginativa: un gruppo di giovani che abitano il mondo e cercano una direzione diversa. E trovo che ci sia speranza, alla fine, nel sorriso di Moon, la protagonista. Lei guarda avanti, verso un futuro sconosciuto ma, forse, finalmente diverso.

‘Mare’s Nest’ include anche un film nel film: ‘The Minotaur’, un cortometraggio del 2022 che racconta, in modo simbolico e suggestivo, la storia di un gruppo di bambini alle prese con la celebre creatura mitologica. Com’è nato questo innesto narrativo?

Tutto è nato dal desiderio di realizzare un film sul Minotauro, dopo aver scoperto quella che mi è sembrata un’ambientazione perfetta: una cava abbandonata a Minorca, simile a un labirinto naturale. All’interno del film c’è una battuta nella pièce teatrale, durante una scena dedicata alla neve, in cui il traduttore dice: “Quando la storia impazzisce, abbiamo i miti per proteggerci”. Mi è sembrata una chiave di lettura fondamentale. Così, più avanti, prende forma questa narrazione mitologica filtrata dallo sguardo dei bambini: una sorta di versione infantile del Minotauro. Tradizionalmente lo consideriamo un mostro, ma io volevo esplorarne l’infanzia, il bisogno di appartenenza, la solitudine. I miti greci continuano ad affascinarci perché, pur essendo antichissimi, riescono ancora a parlarci, a entrare in risonanza con il presente. È questo che li rende così straordinari».

Il suo lavoro ha sempre messo in discussione la distinzione tra documentario e finzione. Che forma può assumere oggi, nel cinema, l’idea stessa di realtà?

Il concetto di realtà è molto complicato. È anche per questo che ho sempre trovato il termine documentario limitante e carico di aspettative. Allo stesso tempo, però, proprio queste ambiguità rendono la forma documentaria estremamente affascinante: permette di giocare con i livelli, con le ambivalenze, e lo si è fatto fin dai primissimi esperimenti cinematografici. Mi stupisce ancora quanto spesso emerga la questione dell’autenticità ogni volta che un’opera, partendo da un linguaggio documentaristico, si avvicina alla finzione. Eppure già Robert Flaherty, Humphrey Jennings e persino i fratelli Lumière avevano introdotto elementi costruiti o messi in scena. Werner Herzog ha fatto di questa zona grigia la sua poetica. È un territorio che mi affascina profondamente, perché non si tratta di elencare fatti o accumulare dati. Oggi viviamo sommersi da un eccesso di informazione, continuamente stimolati da numeri, statistiche, conoscenze codificate. Ma tutta questa pressione a sapere tutto, sempre, in modo esaustivo, rischia di soffocare l’immaginazione, che è una delle risorse più importanti che abbiamo. Ed è per questo che credo che l’arte sia un rifugio così necessario.

Come si è trasformata nel tempo la sua concezione del documentario? E in che modo questo ha influenzato il suo approccio alla narrazione cinematografica?

L’idea che qualcosa possa essere raccontato in modo diretto mi ha sempre messo a disagio. Vale anche per il cosiddetto realismo: la maggior parte dei documentari che vedevo in televisione da ragazzo mi respingevano completamente. Solo più tardi, quando ho scoperto certi film, quelli di Jean Rouch, Chris Marker, Agnès Varda e tanti altri, ho iniziato a vedere nuove possibilità nella forma documentaria. In parte perché non trattavano lo spettatore con condiscendenza, ma anche perché ho cominciato a riconoscere quello spazio in cui una cosa vive dentro l’altra. Non si può davvero separare la finzione dal documentario. Nel 2005, con ‘This Land is My Land’, ho iniziato quasi per caso a lavorare su qualcosa che si avvicinava al documentario, senza però definirlo esplicitamente in questi termini. La svolta significativa, per me, è stata smettere di costruire tutto: spazi, personaggi, oggetti, scegliendo invece di utilizzare ciò che esisteva già. Da quel momento, anche il montaggio ha preso una direzione più libera rispetto alla realtà, concentrandosi sulla creazione di un film che seguisse le proprie regole, quasi a prescindere dalla fonte originale.

Jake Williams attraversa il suo cinema come una presenza quasi archetipica, da ‘This Land is My Land’ a ‘Bogancloch’. Che significato ha per lei questo percorso? Le vostre strade si incroceranno ancora?

Penso che prima o poi sarà inevitabile tornare a lavorare insieme, magari tra dieci anni. Credo che sia interessante prendersi una lunga pausa e poi riprendere. È un progetto che dura tutta la vita, per me e Jake. Mi piace sperimentare cose diverse in ogni film. I film con Jake sono un po’ diversi perché cercano di portare avanti un certo linguaggio cinematografico. Penso di avere uno stile riconoscibile, ma cerco sempre di esplorare nuove strade. Formalmente, ‘Boganclock’ e ‘Mare’s Nest’ sono molto diversi, ma hanno anche qualcosa in comune: parlano di anarchia e di modi diversi di vivere fuori dal controllo.