Naomi Kawase esplora vita e morte, Sho Miyake narra due stagioni di solitudine, Fabrice Aragno due amanti sul lago e Abbas Fahdel testimonia la guerra
Ultimi film di Festival e le sale continuano a sfornare film, e qualche volta, rara, si ritrova un’opera capace di far palpitare il cuore di fronte a troppa emozione. Si tratta di ‘Yakushima’s Illusion’ di Naomi Kawase con Vicky Krieps e Kanichiro, film aggiunto all’ultimo al Concorso internazionale. Dice la regista: “Attraverso gli occhi di un’operatrice sanitaria straniera, questa storia intreccia tempo e spazio per rivelare i cambiamenti nelle relazioni umane dopo la pandemia, nonché la concezione giapponese della vita e della morte trasmessa alle generazioni future”. E ci tiene aggrappati allo schermo per due ore, senza la possibilità di cambiare sguardo, perché lì passa la vita, la nostra vita, quella legata a un cuore che batte e a una natura che ci aiuta a respirare. Film finemente spirituale, di quella spiritualità che non è religione ma il compendio all’antica concezione di Caritas. E sullo schermo, ancora, a essere chiari passano bambini che muoiono perché i loro organi, a cominciare dai cuori, sono malati troppo presto, chiusi negli ospedali aspettano donatori che non ci sono, perché per la loro fede gli organi non si staccano finché il cuore non muore, e allora il Giappone si trova a essere il Paese con minor donatori di organi nel mondo occidentalizzato. E sullo schermo passa una storia d’amore con un giovane che scompare, e ogni anno quasi centomila persone scompaiono in Giappone, e vengono poi dichiarate morte. La regista sceglie di cavalcare i due temi e a renderli un corpo unico capace di esprimere altro: l’estrema poesia epica del vivere, del senso che ha l’essere vivo, e il film è vibrante canto che sfida l’indifferenza che avvolge il nostro quotidiano.
Sempre dal Giappone, sempre in Concorso, abbiamo visto ‘Tabi to Hibi’ (Two Seasons, Two Strangers) di Sho Miyake, che torna a Locarno dove fu in concorso nel 2012 con ‘Playback’. Per questo nuovo film il regista si è basato sul manga ‘Mr. Ben and his Igloo, A View of the Seaside’ di Yoshiharu Tsuge. Ma soprattutto ha scelto come protagonista la brava attrice coreana Eun Kyung Shim, spiegando come gli fosse necessario avere uno sguardo straniero nel film. Lei è una sceneggiatrice in cerca di ispirazione e di forte idee che ci introduce alla prima storia, quella d’estate, sull’oceano dove scopriamo una giovane che incontra un uomo solitario, povero, senza voglia di vivere e instilla in lui una nuova luce che però cede subito. La seconda storia, quella invernale, vede la sceneggiatrice in cerca di un albergo dove dormire in una nevosa serata; spedita ai bordi del villaggio montano, si trova nella tormenta unica cliente di uno sperduto hotel dove trova nel proprietario un uomo che insegue i suoi fallimenti. Un film elegiaco, carico di malinconia, ma non privo di un filo d’umorismo, che gli regala il piacere di vederlo.
Su un altro piano, ancora in concorso, ci porta lo svizzero ‘Le Lac’ di Fabrice Aragno: non un film, ma una poesia visiva, dove troviamo lo spazio dilatato e ridondante della “quotidianità”, in cui la casualità e l’imprevisto forniscono al regista spunti per il suo dire. Fabrice Aragno infila due figure innamorate su una imbarcazione a vela impegnata in una gara sul lago Lemano, e le guarda nel loro agire. Ne coglie lacerti di movimenti e sentimenti. Tutto viene esacerbato dal vento, dal temporale, dalle onde ingrossate, dalle minacciose montagne, e inutilmente cercano di regalare pace le luci ginevrine, subito tutto viene segnato dal correre dei treni merci e passeggeri e i suoni sono diversi, e sono come tagli di colore veloce, che rompe l’intimità dei due navigatori. Un’intimità che a loro regala il ricordo, o forse sarà il futuro, sdraiati su un tappeto verde ad aspettare che il tempo si ricordi di passare. Un film d’autore, con i corpi di Clotilde Courau, attrice, e Bernard Stamm, marinaio.
Infine in competizione anche ‘Tales of the Wounded Land’ di Abbas Fahdel, cronaca intima della guerra che per un anno e mezzo ha sconvolto il Libano. Come ha spiegato il regista, "il mio film nasce dal bisogno di raccontare una guerra che ha distrutto le nostre case e le nostre vite e di mostrare che, nonostante tutto, anche tra le rovine continuano a fiorire umanità e resilienza”. Con il telefonino Fhadel ha registrato i bombardamenti israeliani e i loro effetti primi, nuvole di fumo che si alzano come continui funghi nucleari. Poi, insieme alla moglie, l’artista Nour Ballouk, e alla loro bambina, è andato alla terrificante scoperta del risultato dei bombardamenti degli israeliani su un mondo inerme. La distruzione riguarda le case, i palazzi, i campi gioco, le scuole, le gallerie d’arte, e uccidono non solo persone ma anche cani e gatti e quanti di questi animali restano a trascinarsi mutilati. Alla fine resta non la rabbia, ma la voglia di ricostruire comunità che si sono disperse. Con questo film forte e doloroso, Abbas Fahdel riesce a raccontare la storia di un popolo che affronta il presente con il coraggio della cultura e della vita, opponendosi alla semina di morte e distruzione. Cronaca epica, testimonianza imprescindibile davanti al tribunale della storia, questo film è il canto invincibile di una resistenza che diventa futuro.