laR+ Locarno Film Festival

Fuori concorso un Vincent Grashaw spietato e un fantasy scanzonato

Guerre tra bande in una riserva indiana del Midwest in ‘Keep Quiet’ e il riuscito remake di Steven Kostanski del cult ‘Deathstalker’ del 1983

Keep Quiet
16 agosto 2025
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Mentre i cinefili si godono gli ultimi film del Concorso e scommettono su pardi e pardini, gli spettatori meno raffinati (ma non per questo meno esigenti) sguazzano nel Fuori concorso dove Vincent Grashaw ha presentato ‘Keep Quiet’. Che, non c’è miglior modo di descriverlo, è un film alla Grashaw: spietato e onesto nel raccontare l’umanità ai margini. La storia segue Teddy Sharpe, veterano della polizia tribale interpretato dal bravo Lou Diamond Phillips che, facendo ricorso più al suo buon senso che ai regolamenti, non solo mantiene l’ordine nella riserva del Midwest ma cerca soprattutto di proteggere una comunità minacciata dalle gang di strada. Il suo approccio non ortodosso – che lo porta a dare una seconda chance ai giovani criminali piuttosto che arrestarli – viene messo alla prova quando con la recluta Sandra (Dana Namerode) deve dare la caccia a Richie Blacklance (Elisha Pratt), un pericoloso fuggiasco il cui ritorno nella riserva rischia di scatenare una guerra tra bande. Richie conosce segreti che potrebbero distruggere quel fragile equilibrio che Teddy ha costruito negli anni. Nel cast anche Nick Stahl (già in ‘What Josiah Saw’ sempre di Grashaw), Irene Bedard e Lane Factor.

Grashaw ha girato il film nelle riserve Cheyenne e Arapaho in Oklahoma con cast e troupe in gran parte nativi, e avvalendosi della sceneggiatura di Zach Montague, ufficiale con esperienza diretta nel pattugliamento delle riserve. Il risultato si vede perché il film funziona non solo grazie alla “strana coppia” Phillips-Namerode (siamo agli antipodi del classico buddy movie poliziesco), ma soprattutto grazie al realismo dell’ambientazione che ci ricorda come il male non è metafisico ma terribilmente concreto.

We love Roger Corman

Se Grashaw sa raccontare la criminalità senza romanticismi né moralismi, Steven Kostanski sa come rendere omaggio a un cult degli anni Ottanta con un remake di ‘Deathstalker’ molto fedele allo spirito dell’originale prodotto da Roger Corman.

Il ‘Deathstalker’ originale è il tipico exploitation movie, quelle produzioni a basso budget realizzate per sfruttare la popolarità di film e generi popolari. In questo caso si trattava di cavalcare l’onda di ‘Conan il barbaro’ – che non vorremmo sbagliare è uno dei film preferiti del direttore artistico Giona A. Nazzaro – ma invece di sparire nel limbo delle tante produzioni di Serie B, ‘Deathstalker’ si è ritagliato uno spazio nell’immaginario di generazioni di appassionati del genere. Dove con “genere” si intende il fantasy truculento, quello sword and sorcery in cui l’eroe, se di eroe si può parlare, risolve tutto infilzando maghi e creature varie.

Nell’originale Deathstalker veniva incaricato da una strega di recuperare tre oggetti magici (spada, calice e amuleto) per sconfiggere lo stregone-re Munkar. Kostanski ha aggiornato la storia ma senza interventi radicali: Deathstalker è un mercenario che sopravvive raccogliendo bottino dai campi di battaglia devastati dai Dreadites, una misteriosa orda di guerrieri rosso-sangue con teste scheletriche la cui apparizione preannuncia il ritorno di Nekromemnon. In un campo di battaglia Deathstalker trova (nel senso che lo prende a un guerriero in punto di morte) un amuleto al quale si trova legato magicamente, il che lo rende bersaglio dei Dreadites e di altri assassini mostruosi.

Progetti come questo funzionano quando tutte le persone coinvolte ci credono e ieri alla prima assoluta era evidente il coinvolgimento di tutto il cast, iniziando ovviamente dal protagonista, il veterano del cinema e delle arti marziali svizzero Daniel Bernhardt e citando doverosamente anche Christina Orjalo nel ruolo della ladra Brisbayne, ma tutti gli interpreti (Paul Lazenby, Nina Bergman e Patton Oswalt) hanno saputo dare la giusta tonalità a personaggi che sarebbe facilissimo caricaturizzare. Efficace anche la fotografia di Andrew Appelle.

E poi ci sono gli effetti speciali: tutto basato su effetti pratici e animazione in stop motion, niente grafica digitale aggiunta in postproduzione. Una scelta fatta per restare fedeli all’originale, anche se durante l’incontro col pubblico il regista si è giustificato col fatto di non sapere lavorare con il digitale. Il risultato è quella piacevole ruvidezza che dà carattere al film e alla fine ha messo a proprio agio gli attori: è paradossalmente meglio essere ricoperti di viscida colla (che alla fine sapeva di banana, ha ricordato Orjalo) o recitare con un pesante costume in silicone piuttosto che dover combattere davanti a un green screen contro creature che un artista digitale creerà mesi dopo.

Alla fine il ‘Deathstalker’ del 2025 è un piacevole aggiornamento di quello originale, da vedere non tanto per nostalgia ma per divertirsi con sangue finto e trame gustosamente improbabili.