Il regista di ‘Two Seasons, Two Strangers’ racconta la dualità tra vita e arte ricerca e la ricerca della felicità come forma di resistenza
Per la giuria internazionale, presieduta dal regista e sceneggiatore Rithy Panh, ‘Two Seasons, Two Strangers’ di Sho Miyake è un film che «ci immerge in una storia toccante dove la bellezza delle immagini cattura la fragile capacità e la forza della vita». Con queste motivazioni il regista giapponese ha conquistato il Pardo d'oro per il miglior film di Locarno78. Lo abbiamo incontrato poco prima della cerimonia
Sho Miyake, fin dal titolo il suo film rimanda a una dualità. Ho avuto l'impressione di un profondo divario tra le due parti del film: da un lato l'idea di scrivere, pensare e parlare, dall'altro la vita stessa. È corretta questa lettura della dualità al cuore del film?
Innanzitutto grazie per il suo bellissimo e poetico commento. Sì, senza dubbio percepisco una dualità in ciò che faccio, perché c‘è un aspetto della mia esistenza che è la vita reale, quella che sto vivendo in questo momento e in cui vivono anche le altre persone. Al contempo c’è anche il mondo del cinema, che rappresenta assolutamente un'altra esistenza. Ho sempre interesse nel capire come si può interagire tra questi due mondi, dove si trova il corrispettivo, la relazione fra la mia esistenza e quella del mondo del cinema.
Per quanto riguarda il divario di cui parlava, devo dire che all'interno della nostra vita quotidiana ci possono essere atti assolutamente ordinari come quello di mangiare o di portare a casa lo stipendio. Al contempo però c‘è anche un altro tipo di elemento nella vita quotidiana che potrebbe essere quello dell'arte, del voler creare opere d'arte o comunque interazioni artistiche. Anche in questo caso si viene a creare questo divario, questa dualità che mi interessa esplorare.
All'interno del mio film considero tutti quanti artisti. Se si vede, nella storia c’è una sceneggiatrice che ovviamente, come cineasta, ha a che fare con il mondo della cinematografia. Però al contempo ci sono anche tutti gli altri che fanno parte di una vita quotidiana, una vita che forse non ha ancora raggiunto la forma finale di quella che vogliono sia la loro esistenza. C‘è chi fa operazioni manuali, chi si occupa di manutenzione, chi fa altro, ma anche loro hanno nella loro quotidianità una forma di arte.
Ho avuto l’impressione di un’opera profondamente radicata nella cultura giapponese ma, al contempo, universale. Cosa ha significato per lei presentarla in Europa?
Mi sono impegnato per far sì che l'opera avesse un significato assolutamente universale. Secondo me, ciò che è necessario per riuscire a cogliere e fare propria l'universalità è osservare qualcosa di concreto. Come giustamente dice lei, l'aspetto giapponese – in questo caso possiamo parlare della territorialità del Giappone – significa concentrarsi su un singolo luogo e osservarlo estremamente attentamente. Ci si renderà conto che è vero: in quel luogo ci sono elementi specifici che possono essere ripetuti solo lì, ma al contempo, se lo si osserva attentamente, si potranno anche trovare spunti di universalità.
E cosa ha significato per lei presentarla qui a Locarno, dove era già stato nel 2012 con ‘Playback’?
Ho un grande affetto nei confronti di Locarno: 13 anni fa era la prima volta in cui partecipavo a un festival internazionale del cinema. Certo, mi era capitato in Giappone di partecipare a piccoli festival, ma uno di questa portata era la prima volta per me. Quindi Locarno è stata la mia prima esperienza di un festival internazionale del cinema.
Ovviamente so che ci sono varie tipologie di festival. La cosa che adoro di Locarno è che è puramente un luogo dove le persone possono mettersi faccia a faccia con la cinematografia e discuterne sinceramente, apertamente. Questa secondo me è una caratteristica peculiare di Locarno.
In questi 13 anni ho sempre avuto questa immagine di Locarno, ed essere ritornato ora e aver avuto di nuovo questo tipo di esperienza per me è una grande ragione di gioia.
Nel Concorso internazionale abbiamo visto diverse opere politiche che affrontano direttamente le guerre e le violenze nel mondo. Il suo film è meno diretto, ma credo sia altrettanto politico nel raccontare la difficoltà che incontriamo nel parlare del mondo.
Senza dubbio l'aspetto politico è inserito nella storia in modo non chiaro, non definito. Quindi il fatto che lei lo abbia percepito è qualcosa che mi rende felice perché vuol dire che questo aspetto è stato colto.
Ci troviamo in una situazione globale in cui ci sono numerosi problemi, ed è vero che ci sono alcuni film che cercano di trattare direttamente questo tipo di argomenti. Però secondo me esistono anche approcci diversi. Bisogna innanzitutto pensare che nel mondo stanno avendo luogo una serie di eventi, e allora: che cosa può fare il film? Cosa può fare il cinema da questo punto di vista?
Ci sono storie più grandi, c’è una storia più grande, ma all'interno di questa storia, all'interno di queste possibilità, ci sono delle esistenze, delle vite più piccole che ancora non sono state descritte, che ancora non sono state narrate. C‘è ancora solo il seme di quello che può essere raccontato di queste storie. Questo vuole essere un film che prende quelle voci che ancora non sono narrate e fa sì che queste piccole storie possano avere comunque un loro ambito, un loro luogo. Da questo punto di vista, sì, è politico.
Posso aggiungere una cosa? Ho pensato: noi come esseri umani cosa possiamo fare per essere felici? Cos’è la felicità? Che cosa intendiamo per felicità e come possiamo raggiungerla? Il fatto di pensare a questo già per me rappresenta una forma di politicità. Come possiamo resistere? Quali sono le contromisure che possiamo prendere per cercare di avere una ricerca della felicità? Questo secondo me è anche una forma di politicità.
Sempre pensando alla dimensione politica, il suo lavoro è stato associato al concetto di compassione o empatia radicale. La trova una descrizione appropriata?
Ricordo di aver sentito anch'io questa espressione, non ricordo se da parte della critica giapponese o internazionale. Non sono sicuro di aver utilizzato esattamente queste parole, ma ho detto qualcosa di simile relativamente a quanto sto per dirle. L'atto della cinematografia, ovvero il volgere la macchina da presa verso un'altra persona, ha in sé il rischio di poter essere un atto di violenza. Anche io, quando mi trovo dietro la cinepresa e sto per iniziare le riprese, in qualche modo mi sento incerto. Però la cosa fondamentale è capire che la macchina da presa è uno strumento, e il cinema è un'arte e una tecnica. Ovviamente non penserei mai di far male neanche a una mosca, quindi la cosa fondamentale è come riuscire a riprendere le persone in modo da riuscire a creare un nuovo amore, una nuova esistenza, una nuova forma.
Cerco sempre di eliminare dai miei film qualunque forma di violenza, e questo forse si ricollega proprio a questo concetto.