Papà Ry lo ha messo da piccolo alla batteria, ‘così avremmo suonato insieme’. Così è stato. Sabato 19 luglio, da solista, suona a Blues To Bop
Ricordi parigini. È il 21 ottobre 2018 e l’Olympia attende Ry Cooder, in tour per quello che a oggi è il suo album solista più recente, ‘The Prodigal Son’. Alla batteria e percussioni, ad accompagnare l’oggi 78enne chitarrista che ha influenzato la storia del rock (Keith Richards gli avrebbe ‘soffiato’ tutti i licks fondamentali, dopo averlo registrato senza preavviso, dicono le biografie) c’è anche il figlio, Joachim Cooder. In duo con Sam Gendel al sax è anche l’opening act del concerto, sorprendente perché grazie alla m’bira, strumento tipico dell’Africa sud-orientale la cui variante è la più conosciuta kalimba, le nostre aspettative folk finiscono dalle parti di Paul Simon più che da quelle di papà Ry. Complice l’Africa.
Joachim Cooder è tra i nomi dell’edizione 2025 di Blues to Bop, da venerdì a domenica a Lugano all’interno del contenitore chiamato LongLake. Suona di sabato, alle 20 al Boschetto Parco Ciani, accompagnato dal cantante, chitarrista e compositore italiano Adriano Viterbini. Porta a Lugano il suo ultimo album, ‘Dreamer’s Motel’, e insieme una storia personale di tour a fianco del padre e incisioni storiche. Una a caso: l’album ‘Buena Vista Social Club’…
Joachim Cooder, partiamo da Parigi. Quel suono potrebbe definirsi assai rapidamente world music. Da dove arriva? È frutto di ricerca o di qualcosa di più spirituale?
Quel suono nasce dalla scoperta della m’bira. Prima che questo accadesse, non avevo scritto, cantato o suonato musica mia, ma solo suonato la batteria all’interno di formazioni al servizio di altri artisti. La m’bira mi ha permesso di suonare musica melodica e non soltanto percussiva, anche se all’inizio la cosa era limitata alla composizione di musica per film e comunque non per prodotti musicali identificabili con una carriera da solista. Dieci anni dopo la scoperta dello strumento ho trovato l’artigiano in grado di elettrificarla, la medesima elettrificazione che si fa con la chitarra: ho collegato la m’bira a un amplificatore e tutto è cominciato. Nulla di premeditato o pianificato quindi, ho schiacciato l’interruttore e la musica e il canto sono usciti. Posso dire che da un lato sia stato un processo spirituale e dall’altro il risultato di una ricerca durata una vita, la conclusione naturale dei festival blues ai quali mi portava mio padre quando ero piccolo, degli incontri con i musicisti africani o con quelli cubani. Tutta quella musica girava intorno a me e nella mia mente.
Quando e come hai scoperto la m’bira?
Tramite il costruttore che fabbricò per mio padre una gigantesca slide guitar, grande come un tavolo, che suonava facendo scorrere sulle corde un vaso di fiori. Visto il mio interesse per gli strumenti inusuali, quella stessa persona mi suggerì di fare visita a un costruttore di m’bira. Lo strumento suona naturale per me, non è cromatico come un pianoforte, è più una cosa legata a come una persona ci mette le mani, le dita, istintivamente. È uno strumento che mi parla, in modo diretto.
La batteria è il tuo primo strumento. Col padre chitarrista, perché non una chitarra?
Da giovanissimo ero affascinato da Jim Keltner, che suonava la batteria con mio padre da quando io ero in fasce e anche quando ho cominciato con mio padre. Quella di farmi suonare la batteria è stata proprio un’idea di mio padre, convinto che ci avrebbe consentito di suonare insieme. Così è stato. Ora che ho dei bambini, è bello suonare con loro, anche se i miei li devo convincere (ride, ndr). In casa, quand’ero piccolo, insieme alle chitarre e agli amplificatori di papà c’era anche una batteria. La chitarra è uno strumento che non ha mai fatto presa su di me e di questo sono in un certo senso grato, perché sarebbe stato veramente frustrante essere conosciuto come il figlio chitarrista poco dotato di Ry Cooder.
Tuo padre ti ha portato in tour con sé quando eri ancora un bambino. Cosa ricordi di quei viaggi e come hanno influito sulla tua formazione musicale?
Ricordo in viaggi per registrare a Nashville, o per andare a Cuba. Quando si entra in una stanza con altre persone, la cosa più importante è andarci con la disponibilità all’ascolto, che credo i musicisti abbiano in modo naturale. La capacità di ascolto del prossimo è la distinzione che faccio quando m’imbatto nella celebrità di turno, che spesso non ha un orecchio disposto all’ascolto, perché le celebrità ascoltano prevalentemente sé stessi, vedono il mondo dalla prigione che si costruiscono e credo si perdano la parte migliore della vita. Quando si entra in una stanza con altri musicisti, chiedi loro come puoi contribuire alla musica. Non sempre puoi trovarti all’istante, devi cercare punti di contatto, ma è proprio con coloro che non parlano il tuo stesso linguaggio che riesci ad andare oltre.
Un ricordo delle session di ‘Buena Vista Social Club’? Avevi 19 anni…
Abbiamo suonato con un gruppo generoso di persone che non sapevano chi fosse mio padre e men che meno sapevano chi fossi io. Erano molto rilassati, nessuno si è spaventato per questi pazzi bianchi arrivati da fuori. Erano tutti spiriti generosi, per la conoscenza condivisa e per il modo di suonare. Tutto è stato come una specie di sogno, tanto che alla fine ci siamo chiesti se fosse successo davvero.
‘Dreamer’s Motel’, prima di essere un disco, è un edificio vero. Puoi raccontarci la storia?
Il posto di cui canto è a nord di Los Angeles. Se prendi la Pacific Coast Highway da L.A. e vai lungo la costa ti ritrovi questo motel nel quale i miei genitori mi portavano quand’ero piccolo. Al tempo in quella zona c’erano spazi aperti che oggi a Los Angeles non ci sono più. Potevi camminare, attraversare binari, andare verso l’oceano, tutto era libero e non regolato. Ho sempre pensato che un giorno, quando avrei avuto bambini miei, ce li avrei portati. Ma poi l’hotel è stato rilevato da qualche compratore avido ed è caduto in disgrazia; è rimasto lì, come una balena spiaggiata, un’immagine orribile da vedere. Ora puoi tornarci solo nei ricordi, i bungalow in cui stavi, certe stanze in cui hai speso più tempo che in altre, persone che hai visto e ti piacerebbe rivedere.
Il tuo songrwriting è un affare di famiglia. Tua moglie è una cantante e hai dichiarato di ‘rubare’ le idee ai tuoi bambini…
Il processo è diverso ogni volta. Ti faccio un esempio di ‘furto’ (ride, ndr): un giorno stavo portando la mia famiglia al mare, a sud di L.A., era mattina presto e guidavo una macchina veloce. Tutti si tappavano le orecchie per il rumore, io invece ostentavo i cavalli. Mio figlio mi ha fatto fermare dicendomi che il suono del motore gli aveva fatto “muovere il cuore”. Ecco, quando scrivi una canzone a volte pensi a quello che le persone ti dicono: quel ‘muovere’ del cuore ha prodotto in me una visione romantica e imprevista, sono tornato a casa e ho scritto ‘Sight and the Sound’.
Manca poco a Lugano…
È bellissimo per me viaggiare per incontrare Andriano Viterbini. Collaboriamo a distanza, ci siamo spediti tanto materiale, ma non abbiamo mai suonato insieme di persona. Lui è uno dei migliori chitarristi e io vorrei tanto ‘smembrarmi’ per stare tra il pubblico e sentirlo suonare con me.