È la nuova identità sonora di Luca Di Cataldo, il 25 luglio a Lugano, dove era già stato con Weird Bloom, gruppo psych pop di cui è la voce
«Come tutte le pippe a suonare e cantare sono diventato un cantautore». Viaggi Andromeda, progetto solista di Luca Di Cataldo, non ha nessuna intenzione di recitare il ruolo del cantautore in cerca di redenzione. Domani suonerà al Buskers di Lugano, ma non è la prima volta che calca quel palco: ci era già passato con Weird Bloom, il gruppo psych pop di cui è la voce. Stavolta si presenta come Viaggi Andromeda, un’identità sonora e sentimentale nata, dice lui, come ‘effetto collaterale’ dell’aver cominciato a scrivere in italiano, su insistenza di Auroro Borealo. «Avevo un progetto in inglese, giravo l’Europa. Ero un po’ reticente a scrivere in italiano. Invece mi ha dato la possibilità di dire un sacco di cose».
Il nome Viaggi Andromeda nasce da un generatore automatico di nomi. «Mi piaceva, suonava come un’agenzia di viaggi scrausa. Poi noi stiamo andando comunque verso la galassia di Andromeda, quindi in qualche modo vi ci accompagno io». E in effetti qualcosa del pacchetto vacanze fallato rimane: sole, plastica, romanticismo, alienazione urbana. Il progetto è ufficialmente recente, ma in realtà sedimentato nel tempo. «Viaggi Andromeda ha iniziato a esistere quando ho deciso di far uscire delle canzoni scritte anche circa otto anni fa, tipo Mare Tropicale».
Le sue prime influenze sono arrivate da una fonte laterale: le sigle dei cartoni animati anni 70 e 80. Non quelle di Cristina D’Avena, ma quelle «cantate dai Cavalieri del Re, dalle Mele Verdi e da musicisti della Rca». Sigle che ascoltava da piccolo, grazie alla sorella maggiore, e che oggi considera parte integrante della propria educazione sentimentale. È da lì che nasce tutto, dice. Ogni suo disco contiene una cover scelta da quel mondo lì. In Inventario c’era Pat, la ragazza del baseball, «un cartone, inclusivo ante litteram», mentre nel secondo album ha reinterpretato la sigla di Conan, il ragazzo del futuro.
E anche se suona spaziale, Viaggi Andromeda non è synth pop futuristico. È più un amarcord di una lunga estate italiana, di quelle che si passano annoiati sotto un sole a 40 gradi, tra zanzare e finestre spalancate. «Il mio sound è legato alla musica italiana degli anni 70 e 80. Mi piace molto quello scenario lì, un po’ decadente, un po’ bucolico, un po’ nostalgico. Poi ho questa voce simile a Ivan Graziani». Poi precisa: «Non quando parlo. Quando parlo sono un cafone».
E se nel primo album, ‘Inventario’ (2023), si percepiva una certa libertà, ‘Dulce’, appena uscito, ha uno spirito più intimo. «‘Inventario’ suona ancora bene, secondo me. ‘Dulce’, invece, è scritto un po’ più di pancia. Tra tutti i brani, quello che mi piace davvero è la canzone ‘Little Tony’. Ha quella temperatura lì, quella che cerco sempre. Il resto non lo so. Forse sono stato meno innovativo nel sound».
Le tracce di ‘Dulce’ sono canzoni d’amore travestite. Non a caso, si riconoscono subito da quella lieve riluttanza a confessarsi. «Le ho scritte tutte, più o meno, per una persona. Ma cerco sempre un modo per farle parlare anche agli altri».
In realtà la parola chiave è ‘imperfetto’. «Non so nemmeno se so scrivere. È un processo che dura da vent’anni. Alcune cose mi fanno schifo, altre col tempo sono venute carine. Ma è un processo che non finisce mai. Perché non finisci mai nemmeno tu di cambiare». Lo dice con sincerità spiazzante, come uno che ha fatto pace con il dubbio ma non con l’autocompiacimento. «Se sei soddisfatto non fai mai niente».
Spesso, quando si parla di musica, ci si arrischia nel grande enigma dell’origine: viene prima la strofa o la melodia? È come chiedersi se venga prima l’uovo o la gallina. Di Cataldo non facilita la comprensione. Non perché voglia mantenere il mistero, ma perché il processo non lo possiede, gli capita. La sua scrittura nasce spesso in macchina. Canticchia, sente una parola: «Non lo sa nessuno. Alcune volte il testo, altre volte la musica. La melodia certe volte chiama delle parole. L’altro giorno canticchiavo una cosa e sentivo che doveva dire il buio. E da lì sono partito».
E il cantautorato oggi? Dopo un Sanremo con tre cantautori sul podio, la domanda sembrerebbe sensata. Ma per il cantautore non è così. «Brunori mi piace, ma alla fine tutti devono passare per una specie di setaccio per star lì. Nessuno che ha detto una parola su Gaza sul palco. Sono ormai una specie di esecutori dell’entertainment che ricevono un osso ogni tanto». Di Cataldo però ha un privilegio raro: può permettersi di non essere allineato. «Io non ci vivo con la musica. Quindi faccio le cose, per fortuna, con il lusso e il piacere di farle». Anche i social, dice, sono parte del problema. «Ho tolto Instagram. Ti dà un senso di sazietà nauseante, la nausea di Sartre». L’unico modo per liberarsene è creare a partire da altro. «Una volta compravi un disco e te lo divoravi. Ora salvi un singolo e sparisce il giorno dopo. È frustrante. Tutto ti arriva addosso. E ti passa l’appetito di qualsiasi cosa».