laR+ L’intervista

An evening with John Jorgenson

Polistrumentista, ha suonato con Dylan, Crosby, Elton John, The Byrds. Ma è anche solista, stasera al Bellinzona Blues Festival con la sua Electric Band

John Jorgenson, a Bellinzona con la sua Electric Band
25 luglio 2025
|

C’è uno strumento che proprio non sai suonare? La batteria? «Non sono un batterista fantastico, ma la posso suonare. Il violino no, nemmeno la tromba». Ma il sax sì. «Il sax sì. Tromba, trombone, corno francese e tuba funzionano qui (indica la bocca, ndr), mentre sax, clarinetto e fagotto hanno i tasti ed è tutta un’altra cosa. Il violino, avessi cominciato da bambino... A volte mi dicono: “Ma suoni il mandolino, l’accordatura è la stessa!”. Sì, le corde aperte sono quelle, ma il violino non ha i tasti, tanto per cominciare…»

Oltre alla chitarra di cui è un virtuoso, John Jorgenson – un Grammy e quattro nomination, più altri onorevoli award del country e dintorni – suona la pedal steel, il mandolino e il mandoloncello, il contrabbasso, il clarinetto, il fagotto, il pianoforte e chissà che altro. ‘Polistrumentista’ è la definizione, e quando la Elton John Band si presentò con lui di supporto al biondo chitarrista Davey Johnstone (suo omologo anche per bionditudine), più d’un artista sognò di avere sul palco un tuttofare capace di passare dalle chitarre al sax al canto. In Italia gli Elio e le Storie Tese hanno avuto uno come Jorgenson, si chiamava Paolo Panigada, in arte Feiez, ma ora non c’è più.

«Mia madre era un’insegnante di pianoforte – racconta Jorgenson – e nelle scuole in quegli anni si era soliti introdurre i bambini al pianoforte. Lo fece con mia sorella quando aveva sei anni e ascoltandola, io che di anni ne avevo quattro, dissi “voglio farlo anche io”. Aspettavo che lei finisse di studiare e provavo a riprodurre a orecchio quel che aveva suonato. Allora mia madre si decise a insegnare il pianoforte anche a me, ma facendomi studiare su un altro libro, affinché leggessi davvero la musica. Quando poi mia sorella scelse il secondo strumento, il flauto, io scelsi il clarinetto. La voglia di suonare la chitarra arrivò che avevo dieci anni, ma ce ne vollero due perché i miei genitori si convincessero che non era una infatuazione passeggera, e me ne comprassero una».

Incontriamo John Jorgenson nel day off di un tour che dopo Bellinzona toccherà il Lago di Garda e poi continuerà in diversi Stati Uniti d’America. Nato nel Wisconsin ma californiano già in tenera età, Elton John Band a parte Jorgenson ha suonato con Bob Dylan e Bob Seger, con The Byrds, Willie Nelson, Johnny Cash, Emmylou Harris, Barbra Streisand, Bonnie Raitt, Roy Orbison e Pavarotti, ma l’elenco del session man è lunghissimo e così la sua discografia come solista e band leader. La sua Electric Band è completata dagli italiani Cesare Valbusa alla batteria e Frank Bazzani piano e tastiere, e dallo scozzese Alan Thomson al basso, a loro volta session di prim’ordine. Suonano al ritrovato Bellinzona Blues Festival, stasera alle 23.30 in Piazza Governo.


La John Jorgenson Electric Band

Fascinazioni

«La chitarra – spiega Jorgenson – non è stata una folgorazione. Certo, vidi i Beatles in tv e ne rimasi colpito, ma non sognavo di diventare come loro. Un giorno un ragazzo della mia età venne a scuola con un ukulele e io dissi la solita cosa: “Voglio farlo anche io”. Ne avevamo uno in casa, che nessuno suonava mai, ma siccome ci tenevo a imparare ‘Day Tripper’ capii che mi sarebbe servita una chitarra». La folgorazione fu semmai un’altra: «Andai a sentire una blues band locale che si esercitava nel college in cui mio padre insegnava musica. Era la prima band che vedevo all’opera da vicino, con gli strumenti, gli amplificatori e tutto il resto: mi dissi che, qualsiasi cosa fossero, avrei voluto essere come loro».

Prima di diventare ‘Chitarrista dell’anno’ per la Academy of Country Music, e di esserlo per ben tre volte, Jorgenson era già chitarrista dell’anno anche senza il premio: «Se devo indicare una svolta nella mia vita, è stata quando ho iniziato a fare del suonare mandolino, chitarra e clarinetto una professione, pagato per quel che suonavo». A fine anni Sessanta, Jorgenson era un professionista 12enne dell’area di Los Angeles. «Di certo, il grande salto fu l’incontro con Chris Hillman, creammo la Desert Rose Band e da musicista locale divenni nazionale e internazionale. I tre award come chitarrista sono arrivati subito dopo». Prendendo in prestito il concetto a Taylor Swift, diciamo che nella carriera di Jorgenson c’è stata anche una Disney Era. «Avevo vent’anni e suonavo ogni singolo giorno a Disneyland dalle 10 del mattino alle 5 del pomeriggio. Era tanto, ma in quel modo le mie mani funzionavano sempre meglio, anche il mio canto e la capacità di intrattenere. La gente che visita Disneyland non lo fa per sedersi ad ascoltare la musica, ma per le attrazioni. Se sei un musicista e riesci a conquistare la loro attenzione per almeno una canzone, allora sei bravo. Se ci riesci con due o più canzoni, meglio. A Disneyland ho imparato a suonare, cantare e farmi ascoltare. E mi pagavano, dunque lavoravo e imparavo allo stesso tempo».

‘Grazie, ma ci devo pensare’

Nel 1993 John Jorgenson forma gli Hellecasters con Will Ray e Jerry Donahue dei Fairport Convention. Nato come collaborazione temporanea, il trio diventa una certezza e viaggia parallelo ad altri progetti. «La Desert Rose band stava facendo grandi cose nel country, Elton John ci conosceva e ci apprezzava. Venne a sentirci una sera, ci presentammo nel backstage poi io andai a vedere il suo concerto e lui mi presentò il suo chitarrista, Davey Johnstone, del quale diventai subito amico». Sei anni dopo, la chiamata di Sir Elton: «Mi disse che avrebbero voluto aggiungere un elemento. La mia esperienza con la Desert Rose Band si era conclusa, suonavo come session man per tanti artisti, l’album degli Hellecasters era appena uscito, lavoravo per la tv e per il cinema, era un periodo intenso della mia vita. Ero onorato ed emozionato per la proposta, ma non volevo perdere tutto quel che avevo costruito. Nel music business non puoi lasciare qualcosa e poi tornare a riprendertela: se non ci sei più, qualcun altro prende il tuo posto, gli stili musicali cambiano, tutto cambia. Fu una decisione difficile, mi ci volle una settimana. Elton chiese perché ci dovessi pensare tanto: gli risposi che amavo la sua musica e che lui era una persona fantastica, ma in ballo c’era il mio futuro».


Con Sir Elton John

Il piacere dell’incontro

Con Elton John, da solo o insieme a Billy Joel in un ‘Front to Front Tour’ che mise insieme due pianisti (due che, in verità, poco avevano in comune), Jorgenson viaggiò di continente in continente. Nel 1998 quel tour toccò anche Zurigo, ma Billy Joel s’ammalò e niente Front to Front. Con Johnstone, il comune amore per gli strumenti acustici produsse, nel 1998, l’album ‘Crop Circles’, innocente evasione dal pop e dalle sue dinamiche, che oggi toccano anche altri mondi. «Anche nel country ora c’è molto pop, e tanto rap, ma se parliamo di abitudini, gli artisti country sono sempre stati accessibili, i loro concerti hanno sempre un meet&greet prima o dopo lo show, i fan possono incontrarli. Quando ho suonato per Elton John invece volavamo via dal palco e ci ritrovavamo in hotel o direttamente in aereo, imbarcati verso una nuova destinazione. Non è una dinamica che ho amato, ma la comprendo: se Elton John non lasciasse immediatamente il luogo del concerto sarebbe il caos, o rimarrebbe bloccato nel traffico di chi torna a casa. Lo capisco, ma per me è stato un suonare e andare via ogni volta. Io ho iniziato a fare musica perché la amo, ma ne ho fatta una professione proprio per il desiderio di incontrare le persone».

Oggi Jorgenson passa con disinvoltura dalle grandi venue a quelle più piccole, dai performing art center ai club. «Preferisco i posti piccoli, sono contenitori di energia, e preferisco l’indoor rispetto agli spazi aperti. All’inizio del tour con Elton facemmo arene da 50-60mila persone, poi passammo agli stadi insieme a Billy Joel, luoghi enormi senza soffitto, ed era come se l’energia si disperdesse. Quando tornammo alle arene, mi sembrarono un posto intimo (ride, ndr)».

Diversamente Nashville

Jon Jorgenson suona nei migliori dischi del country, ma è un’anomalia: quando li ha incisi non viveva a Nashville, città della musica, non solo del country. «Il periodo in cui ho suonato più spesso nei dischi country è quello che va dalla fine degli ’80 ai primi ’90, quando ancora vivevo in California. Credo sia stato un bene, perché sono stato per tanto tempo una specie di ‘ingrediente speciale’, il mio non essere a Nashville tutto il tempo mi rendeva più originale nei contenuti. Ecco, forse se non mi fossi spostato a Nashville non avrei avuto il piacere di suonare con Earl Scruggs (Earl Eugene Scruggs, banjoista, chitarrista e compositore statunitense morto nel 2012, ndr), e nemmeno allora fu country ma bluegrass, genere che amo tanto». È solo nel Duemila che John si trasferisce a Nashville, «ma solo per motivi familiari, e non ho suonato più country perché in quel momento iniziava la mia carriera nel gypsy jazz».

Il contributo di Jorgenson alla riscoperta della chitarra manouche è certificato dalle incisioni del Quintet che porta il suo nome. «Un’altra qualità di Nashville è stata la possibilità di suonare gypsy jazz con un’orchestra, cosa impossibile a Los Angeles, la cui filarmonica non si sognerebbe mai di accompagnare un chitarrista manouche». Jorgenson è così devoto di Django Reinhardt da essersi trasformato in lui. In ‘Gioco di donna’, film del 2004 di John Duigan. «Come puoi vedere, fisicamente non ho niente di Django (ride, ndr). Ero lì per ricreare la musica, ma Duigan mi offrì la parte. Ero pronto a tagliarmi i capelli, a farmi crescere i baffi, il reparto effetti speciali avrebbe anche fatto qualcosa per la mano…». Perché il 18enne Reinhardt, inizialmente banjoista, subì gravi ustioni nell’incendio della roulotte di famiglia, perdendo l’uso della gamba destra e subendo danni all’anulare e al mignolo della mano sinistra, ‘saldati’ insieme dalla cicatrizzazione. Per questo motivo Django passò alla chitarra, riscrivendone la storia. «Ma quello del regista era uno scherzo. Io comunque avevo appena imparato a suonare con indice e medio...».

Handy Man

Cadono oggi i sessant’anni dal Newport Folk Festival in cui Dylan prese in mano un’elettrica e fece scandalo. Non tutti concordano sul fatto che i mugugni del pubblico fossero riferiti all’elettrificazione ma tant’è, la data ricopre una certa importanza. «Non posso dire di avere lavorato per Bob Dylan, dico che abbiamo suonato insieme», specifica John. «Suonavo con The Byrds e Dylan era l’ospite». Per dirla con James Taylor, Dylan non è certo noto per essere un ‘handy man’: come andò? «Io suonavo con lui ma le personalità sul palco erano David Crosby, Roger McGuinn, Chis Hillman. Ho preferito restare nel mio spazio, suonando al meglio. Non credo si sia creata una connessione speciale, ma nemmeno era indispensabile accadesse».

Handy man, uomo alla mano, è invece Jorgenson, che dal progetto ‘Divertuoso’, nel quale suona 12 strumenti, alle band Electric e Bluegrass e al Quintet jazzistico, sembra ‘starci ’sempre, qualsiasi connotazione abbia un festival. «So di essere inusuale. Suono tanti strumenti ma soprattutto tanti stili, che si influenzano. Mi piace essere fedele a ognuno di essi, perché li amo per come suonano, non per farli suonare in altro modo. Sono felice dell’invito al Bellinzona Blues Festival perché mi permette di aggiungere più blues al set della Electric Band per questa occasione. Questa varietà mi mantiene musicalmente vivo ed entusiasta di quello che verrà. E sempre nuovo».


Keystone
Il Grammy per ‘Cluster Pluck’

Il programma

Da Joe Colombo al ‘veterano’ Steckel

Aperto dalla Delta Groove band lo scorso 23 luglio, il Bellinzona Blues Festival entra nel vivo stasera. Sul palco di Piazza Governo, dalle 19.30, il bluesman di casa Joe Colombo in Trio. Alle 21.30, Lebron Johnson, volto nuovo della black music in Italia. Dalle 23.30, la John Jorgenson Electric Band. Domani alle 19.30 apre la Blues Band del cantante e chitarrista scozzese Al Brown. A seguire, dalle 21.30, i pluripremiati svizzeri Freddie & The Cannonballs. Atto conclusivo sarà quello di Eric Steckel, veterano del blues di appena 35 anni, ‘benedetto’ da John Mayall.