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L'etica del voto, tra democrazia e scelte individuali

Votare? Non votare? Votare per il bene comune o per i propri interessi, personali o di gruppo? Intervista alla filosofa Valeria Ottonelli

Grandi dibattiti su quale partito o candidato votare, se approvare o respingere quella iniziativa, ma silenzio sui valori e sulle strategie che una persona dovrebbe seguire, quasi fossero scontati
(keystone)
27 gennaio 2025
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Il voto, quantomeno nelle democrazie moderne, è segreto. Ed è giusto così: se nessuno sa cosa voto, nessuno può costringermi a votare in un modo o per l’altro. Questa segretezza, tuttavia, sembra anche aver reso tabù le discussioni sui principi che dovrebbero guidare la scelta individuale: grandi dibattiti su quale partito o candidato votare, se approvare o respingere quella iniziativa, ma silenzio sui valori e sulle strategie che una persona dovrebbe seguire, quasi fossero scontati. Ne sono una prova i vari servizi online, alcuni sostenuti quali antidoto all’astensionismo, che mettendo a confronto il profilo di chi vota con i programmi politici fornisce percentuali e grafici di vicinanza o lontananza dai vari partiti. «Se uno ci pensa è terribile: è come se dall’esterno qualcuno ti potesse dire esattamente in base a quali considerazioni tu dovresti votare, guardando solo gusti e tendenze e senza tenere conto delle considerazioni su cosa è meglio in quel momento per te, data la tua posizione, date le tue idee, dato il contesto in cui ti stai muovendo» ci ha spiegato Valeria Ottonelli, professoressa di Filosofia politica e di Etica pubblica all’Università di Genova, ospite domani di un incontro organizzato da Orizzonti filosofici (alle 20 al Centro Leoni a Riazzino) proprio dedicato all’etica del voto.

Professoressa Ottonelli, si può parlare di “etica del voto”? Ci sono valutazioni etiche che riguardano l’andare a votare o è una cosa completamente politico-giuridica?

Il voto, anche dove non è obbligatorio – e ci sono molti paesi dove è obbligatorio andare a votare – è considerato un dovere civico. Il dovere civico è un dovere che non è giuridicamente imposto, ma che abbiamo in quanto cittadini. Non è un dovere che riguarda la morale personale, è proprio un dovere politico che pertiene a quella sfera, che è un’ampia sfera di doveri che abbiamo in quanto cittadini. Il voto è uno di questi. Quindi quando si parla di etica del voto, molto spesso si parla proprio di questo: dell’astensionismo e dei doveri che noi abbiamo – anche dove non è obbligatorio – di andare a votare. Non è un dovere privato, è un dovere pubblico e politico.

E casi in cui invece è un dovere non votare? Penso a uno Stato dove le elezioni non sono realmente libere ad esempio perché alcuni candidati sono stati esclusi.

Ma anche in paesi che sono pienamente democratici, o meglio che sono considerati democrazie liberali perché nessun paese è “pienamente democratico”. È un tema di discussione in filosofia politica: alcuni sostengono che il voto sicuramente contempla un dovere civico, ma a volte il dovere civico può essere proprio quello di non votare. Ad esempio per protestare quando un sistema democratico, anche se non autocratico o autoritario, funziona male, per cui ci sono interi gruppi di cittadini che non sono rappresentati o non si sentono rappresentati. Oppure quando c’è uno scollamento tra i risultati del voto e quello che il governo eletto effettivamente fa. In questo caso il non votare può essere un segno di protesta nei confronti del malfunzionamento di un sistema democratico, ed è del tutto legittimo e anche a volte doveroso.

Come strategia potrebbe però essere controproducente: se un gruppo non rappresentato si astiene dal voto, la classe politica sarà ancora meno incentivata a prenderlo in considerazione.

Sì, a volte l’astensione può innescare una specie di circolo vizioso di perdita progressiva di potere. Una delle cose interessanti dell’etica del voto, che in realtà è un campo di riflessione ancora poco sviluppato, è proprio il fatto che bisogna fare molta attenzione al contesto. L’effettività dell’astensione dipende molto dal sistema elettorale: nei sistemi proporzionali, in cui la quantità di voti conta e dove c’è più facilità di accesso alla competizione elettorale, per esempio per formare nuovi partiti, l’astensione può essere un’arma importante. C’è infatti un incentivo molto forte da parte dei partiti o delle nuove formazioni a cercare di recuperare dei voti che altrimenti non sarebbero usati. Invece dove ci sono sistemi molto chiusi e consolidati, con un’offerta bloccata, l’astensione può diventare un’arma che si ritorce contro chi vi ricorre. Nell’etica del voto non ci sono dei precetti universali che valgono sempre, ma dovrebbe essere elaborata come un’etica molto sensibile al contesto, capace di catturare non solo il contesto istituzionale ed elettorale, ma anche la posizione di elettori ed elettrici all’interno di quel contesto.

Ci sono sistemi elettorali che potremmo considerare più giusti di altri o, di nuovo, dipende dal contesto politico e dalla storia di ogni paese?

È esattamente così. Devo tuttavia fare una premessa: quando si guarda all’architettura istituzionale, spesso la si considera un aspetto di ingegneria quasi meccanica per raggiungere certi risultati in termini di rappresentatività, di stabilità del sistema e così via, senza chiedersi quali sistemi possano promuovere e permettere di esercitare la capacità di agire come attori politici. È un tema che spesso non viene tematizzato apertamente, o addirittura si studiano sistemi elettorali come se gli elettori fossero degli automi da dirigere, non dei cittadini con una loro autonomia etica e decisionale.

Fatta questa premessa, non esiste un sistema che sia migliore in assoluto. In contesti dove ci sono profonde divisioni religiose, etniche, i sistemi maggioritari funzionano molto male perché creano segregazione sociale e conflitto. In sistemi in cui invece c’è più omogeneità sociale, il sistema maggioritario può funzionare molto meglio perché è maggiormente in grado di aggregare interessi e creare stabilità politica. Dipende molto dal contesto e da considerazioni di varia natura che hanno molto a che fare con la conciliazione tra pluralismo e stabilità.

Dopo le domande “se votare” e “con che sistema votare”, passerei al “come votare”. Bisogna votare per il candidato o il partito che meglio corrisponde alle mie idee, oppure può essere giusto anche il cosiddetto voto strategico, quindi votare la seconda o terza scelta che non mi rappresenta appieno ma ha più possibilità di venire eletto?

Il voto strategico ha una cattiva nomea, perché sembra essere quasi un modo per barare, ma in realtà non c’è niente di sbagliato nel non voler sprecare il proprio voto, ad esempio indirizzandolo in maniera da avere un’effettiva possibilità di trovare un accordo stabile fra diverse forze politiche. Non solo non è da demonizzare, ma anzi può essere anche una scelta responsabile. Pensiamo alle ultime elezioni francesi: in circostanze in cui l’alternativa è percepita come rischiosa o destabilizzante può essere una scelta molto responsabile indirizzare il proprio voto verso quello che potrebbe non essere il proprio partito di prima scelta.

Valutazioni strategiche a parte, quali principi dovremmo seguire per decidere come votare? Dovremmo valutare quello che secondo noi è il bene comune, oppure dovremmo al contrario prendere in considerazione i nostri interessi personali, una scelta egoista da sommare alle altre scelte egoiste? O, ancora, dovremmo prendere in considerazione la nostra identità di gruppo, ad esempio di omosessuale, di donna, di persona di origine straniera?

La sua è una buona domanda perché generalmente si contrappongono l’interesse personale e il bene comune, mentre lei ha inserito un’altra variabile: l’appartenenza identitaria. Ci sono delle cause che non sono strettamente personali: se io sono una donna e privilegio candidate donne, non lo faccio per considerazioni strettamente personali, ma perché sto promuovendo delle istanze che appartengono a un gruppo sociale.

Ma non ci possiamo fermare qui. L’etica del voto dovrebbe vagliare altre possibili considerazioni, ad esempio anche la fedeltà al partito: adesso è sempre meno di moda, ma può rientrare nelle considerazioni legittime di un elettore quello di dare supporto a un partito al quale si è iscritti o che si è sempre supportato, anche quando in un certo momento il partito non è perfettamente allineato con gli interessi dell’elettore.

Il problema è che molto spesso queste diverse considerazioni possono entrare in conflitto. Contrariamente a quanto certa letteratura sostiene – cioè che bisogna sempre votare per il bene comune, immaginando che si sappia cosa voglia dire – la mia risposta è che anche questo dipende molto dal contesto. Se appartengo a un gruppo marginale, un voto identitario ha un suo valore, ha un valore di rivendicazione che è importante in un contesto in cui certe voci non vengono mai ascoltate. È chiaro che se appartengo a un gruppo privilegiato o non così sottoprivilegiato, le considerazioni identitarie devono passare in secondo piano. Però questo dipende molto dalla posizione dell’elettore e dal contesto all’interno del quale si sta dando il proprio voto.

Questa frammentazione, dove le persone votano seguendo principi diversi, non rischia di falsare il risultato?

È una cosa alla quale solitamente non si pensa e che sconcerta molti filosofi politici: per loro è come se le persone giocassero ognuna un gioco diverso, chi scacchi, chi dama… Ma i sistemi democratici che conosciamo sono fatti in maniera tale per cui alla fine ciascun elettore vota in base alle considerazioni che ritiene più importanti. E le campagne elettorali sono organizzate in base a questo assunto: partiti diversi puntano su considerazioni diverse.

Il punto secondo me importante è che tutti questi processi devono essere trasparenti e pubblici. Sarebbe drammatico se le motivazioni diverse con cui elettori ed elettrici vanno a votare venissero tenute segrete all’interno del dibattito elettorale. Invece la cosa bella della democrazia è che questa varietà di considerazioni è trasparente: io vado a votare con la consapevolezza che altri avranno altre cose in mente e quello che alla fine unifica il voto è il risultato.

E cosa succede se una parte degli elettori non concorda proprio su questo punto, sull’accettare il risultato delle elezioni e in generale sull’importanza della democrazia? Penso alle ultime presidenziali americane, ma non solo.

È un fenomeno pervasivo in molte democrazie contemporanee, anche quelle che consideriamo consolidate: una polarizzazione che va oltre ed eccede quelli che sono i perimetri istituzionali. Il voto democratico ha queste istituzioni che contengono due cose apparentemente in contrasto, ma che invece stanno perfettamente bene insieme: cooperazione e competizione. Se ci pensiamo, molti giochi sono così, cooperativi e competitivi: chi partecipa sta dentro lo stesso perimetro, è leale e dentro le regole del gioco cerca di vincere. Purtroppo le elezioni stanno diventando sempre più competitive e sempre meno cooperative: si perde di vista il fatto che all’interno di una competizione elettorale tutti dovrebbero seguire le stesse regole. E questo è disastroso.