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La scienza che ci connette con l’universo alle porte aperte USI

Intervista all’astrofisica Edwige Pezzulli che sabato alle 18 parteciperà all’evento organizzato dall’Università della Svizzera italiana

La galassia a spirale NGC 5335
(NASA, ESA, STScI)
9 maggio 2025
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Si dice spesso che non esistono domande sciocche: tutto dipende dalle risposte. E sabato alle 18 una domanda tra l’ingenuo e l’esistenziale, la classica “da dove veniamo?”, riceverà risposte che ci portano a parlare di stelle esplose, di buchi neri, di origine dell’universo, di immaginazione e di senso della meraviglia. Da quella domanda partirà infatti l’astrofisica e divulgatrice Edwige Pezzulli che, insieme allo storico Jonas Marti, parteciperà all’aperitivo scientifico che si svolgerà nell’ambito di UniVerso, l’evento di porte aperte organizzato dall’Università della Svizzera italiana. Il programma completo delle attività previste al Campus Ovest dell’Usi a Lugano è sul sito www.universo.usi.ch.

Edwige Pezzulli, che cosa l’ha portata a studiare l’astrofisica e a farne la sua attività principale?

In realtà io ci sono finita un po’ per caso, nel senso che non ero una di quelle bambine che sognava di fare la scienziata da grande. Poi una volta conobbi un professore che venne nella mia scuola, nel mio liceo, io tra l’altro facevo il liceo classico, e mi venne a parlare di una scoperta che fu fatta all’inizio del Novecento da un fisico e un matematico. E come è noto, fisici e matematici fanno sempre a braccio di ferro su qual è la disciplina più potente delle due, quindi i due si misero a discutere non di questa scoperta, ma di che cos’era la fisica e di che cos’era la matematica. Ecco, io lì capii per la prima volta che la fisica era uno strumento potentissimo, il più potente che avevamo costruito come esseri umani per farci domande e cercare risposte. A quel punto la scelsi in modo abbastanza automatico. Poi mi specializzai in astrofisica perché riguarda non soltanto l’infinitamente piccolo, ma anche l’infinito e quindi è l’ambito che in un certo senso tiene dentro tutte le cose.

Sembrano le motivazioni con cui di solito ci si iscrive a filosofia.

Le due discipline non sono così lontane come sembra: alla base c’è lo stesso stupore e lo stesso interesse nel cercare di capire il mondo.

Prima ha detto che l’astrofisica riguarda non solo l’infinitamente grande, come ci aspettiamo parlando di stelle e galassie, ma anche l’infinitamente piccolo.

Sì: se vogliamo capire come sono fatte le stelle bisogna guardare alle reazioni nucleari che avvengono al loro interno, capire come gli atomi si combinano tra di loro. E lo stesso vale per il Big Bang, per gli istanti subito successivi al Big Bang quando si sono formati i primi elementi, o per ricostruire cosa accade all’interno di un buco nero: quello che abbiamo è un’interazione di tutte e quattro le interazioni fondamentali della natura, da quelle che vediamo all’opera all’interno nei nuclei degli atomi a quelle che agiscono su grandi distanze. L’astrofisica ci permette di cambiare continuamente scala.

Galassie e nuclei atomici, l’astrofisica sembra rimanere lontana dalle nostre esperienze quotidiane.

Beh, c’è una cosa che mi fa sempre pensare: Totò diceva che “A morte ’o ssaje ched’è?… è una livella”, perché ci rende tutti uguali. Noi in qualche modo quell’esperienza la possiamo fare, in vita e non in morte, attraverso il cielo: guardare il cielo ci permette di ricollocarci come esseri umani, che tutta la nostra vita avviene su un piccolo sassetto che si trova in orbita intorno a una pallina infuocata che è una delle centinaia di miliardi di palline infuocate di una delle centinaia di miliardi di galassie… ecco, questa è forse una delle “esperienze livella” più umane che possiamo fare. Poche cose nella nostra esperienza quotidiana valgono questa esperienza. E purtroppo il cielo ce l’hanno tolto: è una ricchezza, un patrimonio naturale di cui non riusciamo più a fare esperienza a meno di andare lontano dai centri abitati e dal loro inquinamento luminoso. Ormai poche persone tra noi riescono a vedere un cielo stellato ed è un peccato perché è l’esperienza più umana in assoluto. L’astrofisica ci porta in quel mondo che anche se sembra lontanissimo, parla con noi e parla di noi.

Lei si è occupata soprattutto di buchi neri. Cosa c’è di così interessante dal punto di vista scientifico nei buchi neri? E perché affascinano tanto l’immaginario collettivo?

I buchi neri sono forse gli oggetti più estremi che conosciamo e di cui abbiamo prove della loro esistenza nel mondo reale. Quello che voglio dire è che noi esseri umani non sappiamo regolarci bene con gli zeri e con gli infiniti: il nostro cervello è molto limitato, facciamo i calcoli matematici ma non riusciamo a immaginare, ad avere delle descrizioni anche intuitive di cose che schizzano all’infinito o precipitano a zero. Infatti quando i buchi neri furono teorizzati si pensò a lungo che era una soluzione puramente matematica, cioè qualcosa che non avesse una controparte fisica. Parlo di una delle prime soluzioni dell’equazione di Einstein, ottenuta da un tenente dell’esercito tedesco durante la Prima guerra mondiale, Karl Schwarzschild, e che arrivava appunto a teorizzare un buco nero ma va bene usare la matematica, ma non sai se quel pezzo della matematica descrive qualcosa che esiste davvero o se invece è solo un artificio.

All’inizio i buchi neri erano quindi solo il risultato di un’equazione?

Sì e come tale fu messo in un cassetto come artificio matematico, come stranezza: cosa mai vorranno dire, quei calcoli, nel mondo fisico? Solo dopo anni si è deciso di tirare fuori dal cassetto quei calcoli e di chiederci se ’sta roba esiste davvero, come la potremmo osservare eccetera. E ora sappiamo non solo che esistono davvero, ma anche che sono molto importanti perché ora sappiamo che nei centri di quasi tutte le galassie dell’universo ci sono dei buchi neri con masse di milioni ma anche di miliardi di volte la massa del nostro Sole. Capire come si siano formati, capire come interagiscono con la galassia che li occupa, capire in che modo stelle, gas e buchi neri si influenzano a vicenda è uno dei problemi dell’astrofisica moderna.

Per il nostro immaginario, cosa ci può essere di più strano di un pezzo di universo sconnesso da noi, perché di fatto tutto quello che entra in un buco nero non può più uscirne, perché la sua gravità è talmente forte che non permette neanche alla luce di sfuggire dalle sue vicinanze. Nessuna informazione può uscire da un buco nero e tornare da noi: questo significa che ci sono dei pezzi di universo isolati dall’universo stesso, il che apre le porte alla fantasia e alla fantascienza.

Ecco, a proposito di fantascienza: qual è la sua opinione? Contribuisce a diffondere un sapere scientifico o dà idee fuorvianti su come è fatto il mondo e su come lo si studia?

Io guardo di buon occhio tutto quello che prova a uscire dal seminato e a immaginare altro, qualsiasi cosa voglia dire “altro”. Poi ci sono forme di fantascienza che portano poco lontano in questo senso, e forme di fantascienza che sfidano anche assunti di base e che immaginano cose che possono essere di grande ispirazione anche per l’immagine e la ricerca scientifica.

Personalmente non mi sono mai avvicinata alla fantascienza, ma la considero una pecca e sto provando a colmare questa grande lacuna perché penso che ci sia tantissimo, dentro la fantascienza. Alla fine, la scienza cos’è? È una attività creativa dove ognuno cerca di inventare modi per trovare le soluzioni. Siamo abituati a credere che i problemi siano quelli che trovavamo sui libri di scuola, con una domanda e poi in fondo alla pagina la soluzione e il percorso da seguire per arrivare alla soluzione, ma questo non ha niente a che vedere con i problemi veri, sono esercizi. Un problema non ha una soluzione e neanche il modo per arrivare alla soluzione: devi immaginare tu tutto. La scienza è quindi un’attività altamente creativa, come l’arte ma con la differenza di avere un vincolo di realtà.

Come divulgatrice, cosa pensa sia più importante trasmettere: le conoscenze scientifiche o la creatività che c’è nel lavoro scientifico?

Beh, ogni attività ha il suo obiettivo: in ogni interazione ci si pone un obiettivo diverso. La scienza fa parte della cultura, è un bene comune, quindi è importante che ognuno di noi abbia accesso a queste conoscenze più o meno specifiche. Però la cosa più interessante per chi non fa scienza è poter utilizzare lo strumento del pensiero scientifico che può davvero essere utile per capire che domande farsi e come affrontarle, e questo non per forza in ambito scientifico.

La scienza è uno strumento fondamentale per arrivare a costruire comunità che sappiano autodeterminarsi: se è ridistribuito potrebbe davvero fare la differenza in termini di cambiamento sociale. Credo che la comunicazione scientifica abbia come massimo obiettivo proprio questo, entrare in dialogo con la collettività per restituire uno strumento che permetta a quante più persone possibile di scegliere per sé, scegliere con cognizione di causa, scegliere criticamente.

Quindi creatività ma anche metodo, verifica. C’è chi ha parlato di ‘scetticismo organizzato’.

Certamente: la grande forza della scienza non sono l’intuizione, la prova eccetera, ma il fatto che ci sia una comunità che converge verso certe descrizioni della realtà anziché altre utilizzando lo spirito critico e mettendo costantemente alla prova ciò che si crede.

Non penso soltanto a Merton, il sociologo al quale si deve il concetto di “scetticismo organizzato”: un biologo che è stato anche grande anarchico, Pëtr Kropotkin, scrisse un libro intitolato ‘Scienza e anarchia’ perché la scienza è anche una modalità di stare insieme: la scienza lascia parlare i fatti e fare scienza vuole dire dover fare un passo indietro rispetto alle proprie convinzioni, mantenere alto uno spirito critico rispetto a ciò che si è visto finora o comunque non farsi andare bene la risposta “si è sempre fatto così”.

Venendo all’incontro di sabato per la giornata di porte aperte, uno dei temi sarà che ‘siamo polvere di stelle’. In che senso?

Gli elementi più pesanti che troviamo sulla Terra, e di cui siamo fatti, sono stati sintetizzati all’interno delle stelle. Quindi non solo siamo figli di stelle, ma di stelle esplosive, cioè di stelle che esplodendo hanno “messo in circolo” questi elementi che sono finiti nei pianeti che si sono formati dai loro resti. Non è quindi un modo di dire: gli atomi più pesanti che ci compongono arrivano da qualche lontana stella. Ma è affascinante anche la storia degli atomi più leggeri, come quelli di idrogeno: la scala temporale qui è ancora più grande, perché si sono formati poco dopo il Big Bang. Quindi non solo possiamo dire di avere quasi 14 miliardi di anni, ma anche di essere stati tutti insieme: c’è stata un’epoca in cui questo materiale che adesso ha forme così diverse era tutto in contatto in un punto, in uno spazio piccolissimo, perché nell’universo tutto c’è sempre stato, i nuclei degli atomi si sono poi fusi creando elementi più pesanti ma le particelle costituenti sono sempre state lì. Calvino, in un passaggio delle ‘Cosmicomiche’ molto bello, descrive proprio così il momento prima del Big Bang: “Ogni punto d’ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti”.