A colloquio con Meron Rapoport, uno dei più noti giornalisti israeliani, critico del governo Netanyahu: ‘Se volesse, l’Europa potrebbe fare pressione’
Meron Rapoport è uno dei nomi più noti e influenti del giornalismo in Israele. Schierato per la giustizia e i diritti umani, collabora con Haaretz, dirige un giornale d’inchiesta in ebraico (Local Call) e scrive per +972, pubblicazione investigativa online in inglese. In passato è stato caporedattore del maggior quotidiano israeliano (Yedioth Ahronoth). Oggi è un giornalista scomodo che non esita a denunciare la spietata pulizia etnica, gli eccidi e a lanciare un appello per il boicottaggio del suo Paese.
Meron Rapoport, sono trascorsi quasi due anni dal 7 ottobre del 2023. Abbiamo visto quello che è successo, un massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre e poi, dal giorno successivo, un massacro continuo compiuto dagli israeliani. Quasi 700 giorni di carneficina ininterrotta. Sappiamo dunque quello che è successo, ma ci chiediamo quello che succederà, dove stiamo andando.
Gli obiettivi del governo Netanyahu sono abbastanza chiari. Occupare la città di Gaza, distruggerla totalmente, farne un cumulo di macerie, un deserto, come ha fatto a Rafah, a Beit Hanoun e altre città della Striscia. Lo ha ribadito chiaramente il ministro della Difesa Israel Katz qualche giorno fa.
E la popolazione palestinese?
Il milione di palestinesi che sono ancora lì a Gaza City sarà costretto ad andare verso sud. Una situazione provvisoria fino al compimento della pulizia etnica totale di Gaza. Cacciare tutti i palestinesi dalla Striscia. Non si sa esattamente dove, in Africa, in Asia, in Europa, non si sa, ma mandati via.
L’obiettivo ultimo sarebbe l’annessione definitiva di Gaza, ma anche della Cisgiordania?
L’annessione è una cosa un po’ diversa. Per il momento l’obiettivo è la pulizia etnica di Gaza. Per quanto riguarda l’annessione, sì, ci sono pressioni abbastanza forti nel governo da parte dell’estrema destra, da Smotrich, Ben Gvir e altri, che spingono per l’annessione della Cisgiordania come risposta al riconoscimento dello Stato palestinese da parte di Francia, Gran Bretagna, Canada, Australia e altri Paesi. Per Gaza la prospettiva è un po’ diversa, perché lì ci sono in ballo gli Stati Uniti, c’è il piano di Trump che non è molto chiaro, che parla di uno statuto speciale, non si capisce quale esattamente, ma non è l’annessione a Israele. L’annessione della Cisgiordania è in parte già una realtà perché in effetti Israele controlla di fatto tutta quella regione, mentre a Gaza controlla il 75% della Striscia. Lì l’espulsione di due milioni di palestinesi sarebbe una cosa irreversibile.
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‘L’espulsione di due milioni di palestinesi sarebbe irreversibile’
Anni fa lei ha lanciato con altri il movimento ‘Land for All’, che promuove la soluzione dei due Stati praticamente per due popoli. Ha ancora un senso? L’unica seppur estremamente remota soluzione, stando a diversi analisti, sarebbe uno Stato unico per tutti.
È chiaro che quanto sta succedendo allontana l’ipotesi dei due Stati. Fondando questo movimento, 13 anni fa, abbiamo capito che una netta separazione fra Israele e Palestina, con gli israeliani da una parte del muro e i palestinesi dall’altra, è impraticabile. È ovvio che ogni giorno che passa, con la progressione degli insediamenti dei coloni, diventa più complicato avere due Stati.
Dunque?
Io comunque dico che è ancora possibile, con israeliani che vivranno nella Palestina, nelle città della Cisgiordania e di Gaza, sotto la sovranità palestinese, mentre i palestinesi, fra cui anche i rifugiati, che potranno vivere in Israele, cittadini palestinesi residenti in Israele, un po’ come nell’Unione europea. Quello che auspichiamo è una confederazione fra questi due Stati, dai confini abbastanza aperti, con libertà di movimento, libertà di residenza: Stati indipendenti ma sotto un’Unione, una super-struttura che permetta sia la cooperazione economica, turistica dei trasporti ecc... sia libertà di movimento.
Ha citato l’Ue: si ha la netta impressione che Bruxelles, ma anche Berna, non faccia in pratica nulla di utile per spingere Israele a cessare quello che appare ormai come un genocidio anche secondo la Iags, la principale associazione di studiosi in materia. E come se contasse soltanto la volontà di Donald Trump, acriticamente schierato con Netanyahu. Cosa dovrebbe fare l’Europa, Svizzera compresa?
Se volesse, l’Europa potrebbe certamente fare pressione. Consideri che per Israele il commercio con l’Ue è molto più importante che non con gli Usa o con la Cina o l’India. Si dovrebbe anche imporre un visto ai turisti israeliani che vengono in Europa. C’è poi anche lo sport come mezzo di pressione: dal calcio al basket. Se l’Europa lo volesse metterebbe Israele sotto pressione sia a livello economico sia sul piano culturale o sportivo. Alcuni Paesi sono disposti a farlo, non necessariamente progressisti, come il Belgio o l’Olanda. Vi sono poi Spagna o Irlanda che vogliono fare pressioni su Israele, ma le regole dell’Ue impongono l’unanimità dei voti su questioni importanti. Questo è il problema. In pratica solo con le sanzioni si può sperare di smuovere qualcosa.
L’ebraismo ha una forte tradizione umanistica. Dove è finita? Tanti intellettuali, osservatori, giornalisti anche ebrei denunciano una radicale disumanizzazione del Paese.
Certo, ma non è una cosa del tutto nuova. Questo sentimento esiste da sempre purtroppo, dal primo giorno dello Stato di Israele, con la Nakba, il rifiuto di permettere ai rifugiati di ritornare alle loro case, distruggendo i loro villaggi, le loro città. Dalla seconda Intifada e con il fallimento del processo di pace di Oslo nel 2000 la situazione è ulteriormente peggiorata. Tutto questo ha già fatto sì che ci sia poca attenzione alla vita dei palestinesi. Ovviamente dopo il 7 ottobre tutto è precipitato.
Sembra che la disumanizzazione sia abbastanza diffusa nella società israeliana.
È vero. Confermo. Un recente sondaggio indica che il 75% degli ebrei in Israele accetta l’idea che a Gaza non ci siano innocenti, che lì sono tutti colpevoli. A Rafah vi era una città nata 5’000 anni fa, e oggi non esiste più. Adesso si vuole anche distruggere Gaza, una città non ebraica che è menzionata nella Bibbia.
E per quanto riguarda l’ebraismo, che impatto ha questo contesto così estremo e drammatico?
Per quanto riguarda l’ebraismo a cui lei fa riferimento, quello umanistico, beh: devo dire che questo ebraismo non esiste in Israele. È un sogno europeo, un concetto europeo dell’ebraismo.
Però nella diaspora c’è.
Nella diaspora esiste, lo so. Lì c’è una grande tradizione, un retaggio glorioso dell’umanesimo ebraico. Ma ripeto: purtroppo in Israele non esiste.
È stato sostituito dal millenarismo estremista?
Sì, gente come Smotrich afferma che la morale ebraica è completamente contraria alla morale del cristianesimo. L’idea che si debba avere compassione per l’altro sarebbe un’idea che è estranea all’ebraismo. Lo dicono, scrivono e ripetono tutti i leader del sionismo religioso.
Recentemente su queste pagine abbiamo proposto un’intervista con David Cassuto, ex vicesindaco di Gerusalemme. Afferma che Unrwa, Onu, Msf, giornalisti critici, siano tutti complici di Hamas. A noi personalmente pare una visione aberrante, ma secondo lei sono posizioni e idee diffuse in Israele?
Sì, la maggioranza la pensa come Cassuto, vi è un vasto consenso. Questo non vuol dire che non ci siano israeliani come me e come altri. Diciamo che il 15-20% non la pensa come lui.
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Voci dissidenti
Local Call di cui lei è direttore, +972 o Haaretz fanno uno straordinario lavoro d’inchiesta. Esemplare perché sono spesso dei giornalisti ebrei che non guardano in faccia a nessuno, indagano e svelano scandali indipendentemente dalla loro appartenenza. Riuscite a lavorare liberamente in Israele?
Sì, siamo abbastanza liberi. Siamo privilegiati. Come ebrei israeliani godiamo della libertà di scrivere. A volte riceviamo minacce, ma non da parte del governo, non da parte delle istituzioni. Purtroppo nella società israeliana c’è solo una piccola parte che ci segue e denuncia i crimini perpetrati a Gaza. In termini generali le nostre inchieste hanno avuto più impatto all’estero che in Israele, soprattutto quelle tradotte in inglese e pubblicate ad esempio sul Guardian. Local Call è in ebraico, +972 è un sito israelo-palestinese dove ci sono palestinesi che lavorano anche da Gaza. E quando scrivo per Local Call e anche per +972, penso a tutti quelli che vivono tra il fiume e il mare. E fra il Giordano e il Mediterraneo ci sono 15 milioni di persone, la metà palestinesi, l’altra metà ebrei e allora sento di rappresentare la maggioranza di quelli che vivono tra il fiume e il mare. Perché con 7,5 milioni di palestinesi e qualche centinaio di migliaia di ebrei che sono contrari ai crimini che commettiamo a Gaza, noi rappresentiamo la maggioranza.
Tra le tante inchieste, ve n’è una che riveste particolare rilevanza e di cui vorrebbe parlarci?
Nella nostra redazione ci sono giornalisti coraggiosissimi con i quali mi sento fiero di lavorare. Se devo scegliere un’inchiesta, scelgo senz’altro quella su Lavender, che è uscita nel febbraio-marzo 2024. Abbiamo rivelato l’uso dell’IA, l’intelligenza artificiale, per scegliere obiettivi umani, per decidere chi colpire: una lista di morte di 37’000 palestinesi di Gaza. Si è deciso ad esempio che era preferibile colpire la gente a casa propria perché era più facile e più a buon mercato. Una bomba costa molto di meno di un missile sparato contro un tunnel. Abbiamo scoperto le regole sui cosiddetti danni collaterali: per ogni militante di Hamas si potevano uccidere 20 civili. Se era un comandante si potevano uccidere più di 100 civili. Abbiamo scoperto anche un sistema chiamato “where is daddy”, dov’è papà, sistema che spiava i telefoni dei figli per sapere se papà era a casa: in quel caso si colpiva e si colpisce la casa, cioè tutta la famiglia.