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Mosè Bertoni, oltre il mito dell’anarchico utopista

Al Monte Verità una serata sull’affascinante storia (negli aspetti più concreti) dell’emigrante bleniese. Qui un’anteprima col suo biografo Danilo Baratti

La grande famiglia di Bertoni, al centro con la moglie Eugenia, circondato da figli, nuore, generi e nipoti, in Paraguay, intorno al 1914
(www.mosebertoni.ch )
19 aprile 2025
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Un incontro per approfondire la vita di una delle figure più affascinanti dell’emigrazione ticinese di fine Ottocento, quella «eccessiva e multiforme» di Mosè Bertoni, mettendo in luce gli aspetti più tangibili di un’esistenza spesso mitizzata. È quanto si propone l’evento dal titolo ‘Una storia straordinaria sull’abitare il mondo’, in programma giovedì 24 aprile alle 18.30 presso l’Auditorium del Monte Verità di Ascona. L’approfondimento è affidato agli storici Patrizia Candolfi e Danilo Baratti che di Bertoni sono biografi, in dialogo con la giornalista Cristina Foglia.

Originario della Valle di Blenio, nel marzo del 1884, a ventisette anni, Bertoni salì sulla nave che lo avrebbe portato a Buenos Aires con la propria famiglia e altri compagni di viaggio. Aveva pensato inizialmente di costituire una comunità di stampo anarchico-comunista, ma il progetto non venne realizzato. Fondò invece in Paraguay, dopo alcuni anni difficili, una colonia di famiglia basata sul principio dell’autosufficienza, in cui la produzione agricola si accompagnava alla ricerca scientifica, in un luogo sul Paraná che ancora oggi si chiama Puerto Bertoni. Con Baratti percorriamo alcuni aspetti che verranno esaminati più in dettaglio il prossimo giovedì.

Nella descrizione dell’evento si parla di una storia spesso mitizzata. Cosa si intende e qual è invece il vostro approccio?

Bertoni si porta spesso dietro due etichette, quella di anarchico e quella di utopista. Confrontati con questi luoghi comuni, io e Patrizia Candolfi abbiamo sempre cercato di concentrarci sulla sua esperienza reale e sulle sue idee, non riducibili al solo anarchismo, anche se in gioventù è stato anarchico per breve tempo. D’altro canto parlando di utopia, categoria molto vaga fuori dall’ambito letterario, si rischia di oscurare la realtà di una colonia che in Paraguay si è tenuta in piedi per quasi quarant’anni. Bertoni realizzò gran parte dei suoi intenti: un insediamento di sua proprietà con la famiglia impegnata nell’agricoltura, nella sperimentazione agronomica e nella ricerca scientifica. Impiantò persino una tipografia nella foresta, dove negli ultimi dieci anni stampò i suoi libri. Era isolato nell’Alto Paraná, ma era in contatto con il mondo grazie agli abbonamenti a riviste, a una biblioteca di dodicimila volumi e a relazioni epistolari con istituzioni e ricercatori. Insomma, dietro tutto ciò c’è certamente una dimensione ideale, ma anche una costruzione reale tutt’altro che utopica.

Nell’ambito della discussione si tenterà comunque un confronto tra l’esperienza di Bertoni e l’utopia del Monte Verità, definite due storie di emigrazione e radicamento che hanno avuto evoluzioni differenti.

Sì, parlare di Bertoni al Monte Verità porta inevitabilmente a un confronto, data la contemporaneità delle due esperienze che però non hanno avuto alcun contatto diretto. Nella diversità e lontananza, qualche tratto comune esiste. Ad esempio Bertoni divenne vegetariano, ma in Paraguay seguendo un suo percorso. Ebbe anche contatti con il pensiero teosofico e lo spiritismo, ma tutto maturò nel contesto di laggiù. Si tratta di percorsi paralleli, con alcuni elementi analoghi che meritano di essere evidenziati e analizzati, senza però fonderli in un unico calderone. Per usare l’espressione del titolo, sono state forme molto diverse di “abitare il mondo”.

Avete dedicato un pluridecennale e intenso lavoro di ricerca alla figura di Bertoni. Cosa vi ha spinto a interessarvi a lui, cosa vi ha particolarmente colpito?

Direi che siamo “incappati” in Bertoni quasi per caso, grazie a una serie di coincidenze. Leggendo le sue lettere e quelle a lui indirizzate, ci siamo appassionati e siamo rimasti molto legati a questo personaggio eccessivo e multiforme, come appunto lo abbiamo definito. La prima tappa è stata la pubblicazione di una biografia epistolare nel 1994. Poi nel tempo le nuove scoperte avvenute anche grazie a documenti scovati in Paraguay ci hanno stimolato a sviluppare meglio certi aspetti della sua vita e del suo lavoro.

Lo definite multiforme per la sorprendente molteplicità dei suoi interessi non tanto comune ai suoi tempi.

Esatto, pur essendo cresciuto a fine Ottocento, ovvero un periodo di crescente specializzazione accademica, manteneva una visione enciclopedica negli ambiti delle scienze naturali e sociali. Formatosi come botanico, fece rilievi meteorologici e studi sul clima, si dedicò a sperimentazioni agricole, pubblicò trattati di agronomia, studiò la cultura e la linguistica guaranì, scrisse testi di geografia e geologia, esplorò corsi d’acqua e li cartografò. Questa ampiezza di interessi comporta dei limiti, ma il fascino di Bertoni risiede nel suo impegno continuo e nell’impressionante attivismo condotto come ricercatore in svariati campi del sapere.

Tra tutte le attività elencate ce n’è una che ha avuto un impatto preponderante?

In Paraguay hanno lasciato tracce profonde, alimentando anche il mito del saggio Bertoni, i suoi studi sui guaranì. Sebbene discutibili dal punto di vista antropologico e storico, ebbero un ruolo cruciale nel plasmare una nuova identità nazionale paraguaiana nei primi decenni del Novecento. In un Paese in profonda crisi dopo la devastante guerra del 1870 i suoi studi, indipendentemente dal valore scientifico, ebbero un impatto significativo sulla storia culturale. Anche se non hanno cambiato la mentalità comune del Paraguay, a livello teorico queste ricerche hanno dato dignità alla componente guaranì verso cui prima dominava un forte disprezzo.

C’è qualche elemento nell’esistenza di Bertoni che potrebbe essere considerato pionieristico in relazione a certe sfide contemporanee come quelle legate alla convivenza interculturale o alla sostenibilità?

Bertoni proveniva da un’Europa intrisa di mentalità coloniale, che in parte si è portato dietro, convinto della superiorità culturale del nostro continente. È inesatto considerarlo teorizzatore di un atteggiamento paritario verso gli indios in generale: ciò valeva per i guaranì, che riteneva assimilabili agli europei, ma non per altri gruppi indigeni guardati con ben minore considerazione. Ha studiato le conseguenze negative sul suolo di certe pratiche brutali come il “taglia e brucia” ed era molto più attento all’ambiente rispetto ai suoi contemporanei, ma allo stesso tempo, pur essendo fondamentalmente anti-urbano e anti-industriale, era votato al mito dello sviluppo e del progresso proprio della mentalità occidentale. Per cui aveva sì sensibilità che possono essere valorizzate e recuperate, ma senza farne ad esempio un ecologista ante litteram o idealizzarlo come profeta dell’interculturalità. La sua era una visione molto complessa e spesso bivalente. Nel nostro libro ‘Dalle Alpi al Paraná’ abbiamo inserito un capitolo intitolato ‘Contraddizioni’ non per mettere Bertoni alla berlina, ma semmai per evidenziare quanto possa essere interessante un personaggio anche per come tiene insieme, nella sua vita, un ventaglio di idee e azioni che riflettono differenti tendenze del suo tempo.