La filosofa americana ha parlato dell’importanza di costruire un contro-immaginario alle passioni autoritarie che attaccano la presunta ideologia gender
Perché parlare di gender oggi? Di motivi per parlare d’altro, tra chi ha una sensibilità che potremmo definire “progressista”, ce ne sono molti: in questo momento storico abbiamo temi politicamente più urgenti della differenza tra identità di genere e sesso biologico, e mettersi a parlare di pronomi “lui/lei/loro” (peraltro mal adattando all’italiano il ‘singular they’ inglese) porta solo a polemiche tanto accese quanto inconcludenti.
Curiosamente anche Judith Butler ne farebbe a meno, di parlare di gender. La filosofa americana, professoressa emerita all’Università della California a Berkeley, pubblicò nel 1990 ‘Gender Trouble’ (tradotto in italiano con ‘Questione di genere’), testo di riferimento per le ricerche (e l’attivismo) successivi. Negli anni a seguire aveva poi ampliato le sue analisi, dedicandosi anche ad altri temi. «Ero pronta a passare ad altro, avevo finito con questo tema» ha affermato rispondendo ad alcune delle domande del numeroso e variegato pubblico venuto, nei giorni scorsi, ad ascoltarla all’Università di Milano Bicocca.
Cosa ha portato Judith Butler a pubblicare, l’anno scorso, ‘Chi ha paura del gender’? La risposta la troviamo già nel titolo dell’incontro organizzato dal Dipartimento di scienze umane per la formazione: ‘Fantasmi di genere nei nuovi tempi autoritari’. Il genere è diventato un campo di battaglia, per non dire un capro espiatorio, nelle politiche autoritarie contemporanee.
Certo, il tema ha fin da subito suscitato accese discussioni, non solo in ambito accademico. Butler ha portato i temi della sessualità e del desiderio al centro del discorso filosofico. Coniugando una certa sensibilità fenomenologica alla teoria degli atti linguistici (che esplora come il linguaggio non sia una semplice descrizione del mondo ma anche a dare ordini e “fare cose”), Butler ha messo in evidenza come il genere sia costruito performativamente attraverso atti linguistici e, più in generale, culturali.
Il genere non è qualcosa con cui nasciamo, ma qualcosa che “facciamo” attraverso la ripetizione di atti culturalmente codificati. Non si nasce donne o uomini, ma lo si diventa in un processo continuo, non per un fatto biologico immutabile.
«Quando ho iniziato a scrivere questo libro non avevo previsto quanto intensamente si sarebbe intensificata l’ondata autoritaria» ha spiegato Butler a proposito di ‘Chi ha paura del gender?’.
Il punto centrale del libro, e della conferenza, è che il termine “gender” è diventato un fantasma potente e terrificante nelle mani della destra autoritaria globale. Un fantasma che raccoglie e mobilita paure diverse – sulla sicurezza economica, sul cambiamento climatico, sull’identità nazionale – e le canalizza in un’opposizione feroce a ciò che viene chiamata “ideologia gender”.
Curiosamente questo fantasma, e la relativa battaglia “anti ideologia gender”, non è un prodotto d’esportazione americana: questa strategia era presente altrove, in Europa e in Sudamerica, ma negli Usa sembrava minoritaria almeno fino all’ultima campagna elettorale. Una delle bufale circolate prima delle elezioni usava proprio il gender per aggregare paure legate all’immigrazione e all’economia, con Kamala Harris pronta a pagare interventi di transizione di genere agli immigrati.
In questo modo, ha spiegato Butler, si cuciono insieme molteplici ansie creando una minaccia amalgamata a un’America che si riconosce e definisce intorno al rifiuto di alcune comunità che rivendicano pari dignità e diritti.
Questo fantasma è ora al centro dell’azione di governo di Trump e di altri governi di ultradestra. «Le strategie autoritarie non solo prendono di mira campi accademici ma anche istituzioni culturali, organizzazioni no-profit che si dice promuovano agende di sinistra, diritti di voto, diritti per i migranti». L’ideologia gender lega insieme diverse paure, senza troppe preoccupazioni per la coerenza delle accuse: il “gender”, a seconda degli umori e dei contesti, è un’imposizione capitalista occidentale oppure un complotto marxista per distruggere la famiglia.
Per questo, secondo Butler, è cruciale tornare a parlare di gender: il movimento anti-gender è diventato un elemento cardine dell’autoritarismo contemporaneo, un veicolo per passioni d’odio che non riguardano solo il femminismo o le comunità LGBTQ. «Se pensiamo che privare le persone trans dei loro diritti, inclusi lo status legale e i diritti genitoriali, non abbia nulla a che fare con la deportazione dei migranti o la criminalizzazione degli sforzi per soccorrere i migranti in mare o l’accelerazione delle tendenze nel capitalismo e nella distruzione climatica, dovremmo ripensarci». L’anti-ideologia di genere si alimenta di paure che trovano soddisfazione in un maggiore controllo statale e in strutture autoritarie che colpiscono tutte e tutti.
Judith Butler ha voluto dedicare una parte importante del suo intervento a come rispondere a queste passioni autoritarie: non basta infatti denunciare le manipolazioni di chi travisa ed estremizza ogni rivendicazione per mobilitare attraverso la paura parte della popolazione. A queste emozioni occorre contrapporre un “contro-immaginario” altrettanto potente e appassionato. «La politica nei tempi bui, come quelli in cui viviamo, non può procedere senza un contro-immaginario, una visione appassionata che rivaleggi con e abbia il potere di sconfiggere il sadismo moralizzato delle passioni fasciste e il loro paesaggio fantasmatico».
Questo contro-immaginario, secondo Butler, deve basarsi sull’idea dell’uguale valore di tutte le vite, inclusa la vita umana e animale e i processi viventi della terra. «Questo tema contiene ed eccede l’antropocentrismo mentre si estende a creature in pericolo, forme di vita e processi di vita opposti alle attività che danno la morte e privano dei diritti».
Non si tratta semplicemente di un esercizio teorico, o di una utopia fine a sé stessa. La capacità di immaginare un mondo diverso è al contrario profondamente legata all’agire. «L’azione politica non è completamente separabile dall’immaginario, e l’immaginario si costruisce nel tempo e attraverso varie tecnologie che danno nuova e discutibile sintassi per comprendere il mondo».
Ci si oppone e si denunciano le violenze in corso in varie parti del mondo perché si è convinti che si stia commettendo un’ingiustizia e che qualcosa di prezioso stia venendo distrutto nel nostro mondo. «Nella nostra obiezione e opposizione, nel nostro dire di no, un immaginare è già in gioco. Stiamo dicendo, forse senza dirlo esplicitamente, che vogliamo vivere in un mondo in cui guerre del genere non stiano accadendo».
Gli studi di genere nascono, come accennato, con l’obiettivo di liberare le persone dalle rigide norme binarie e in generale dalle imposizioni culturali che trovano giustificazione in un insostenibile determinismo biologico. Tuttavia, secondo diverse critiche presenti anche da ambienti progressisti, il movimento gender avrebbe semplicemente sostituito un identitarismo binario a un altro, più ricco ma ugualmente pericoloso. Ne è un esempio la proliferazione di sigle (LGBTQIA+) che di nuovo incasellerebbero le persone e frammenterebbero una solidarietà politica che dovrebbe basarsi su valori universali.
È una critica che è stata sollevata durante il dibattito e la risposta di Judith Butler è stata molto netta. «Si sente spesso dire che la politica femminista, la politica gay e lesbica, la politica antirazzista riguardano l’identità. Non è vero: riguardano l’uguaglianza, riguardano la libertà, riguardano la giustizia».
Certo, Butler lo ha potuto affermare con la forza del curriculum intellettuale di una persona che non ha mai ceduto a semplificazioni, ma al contrario ha sempre sottolineato la varietà e complessità della realtà. Ne è stata la prova l’accenno che, in risposta a un’altra domanda, ha fatto al patriarcato: si tratta di uno dei concetti chiave del femminismo e secondo Butler è certamente importante per comprendere i sistemi di potere e di oppressione, ma non può essere l’unico quadro di analisi possibile per comprendere la realtà. «Tendo sempre a diffidare delle spiegazioni monocausali, delle teorie della vera origine di un fenomeno».
Se si vuole cercare un movimento politico ossessionato dall’identità, ha proseguito Butler, non bisogna guardare alle rivendicazioni di diritti che si muovono all’interno dello spazio democratico, e di fatto ne chiedono semplicemente l’ampliamento. «Guardiamo ai suprematisti bianchi: quello è un partito che possiamo chiamare “identità”. Guardiamo ai movimenti che combattono l’immigrazione proprio per una questione di identità».
È tuttavia inevitabile che certi discorsi, soprattutto quando riguardano le persone queer, portino a reazioni di chiusura, una sorta di contraccolpo che probabilmente riguarderà anche questo stesso articolo. Proprio una persona queer, dall’identità di genere non conforme, ha chiesto a Judith Butler se è possibile affrontare pubblicamente certi argomenti evitando che si ritorcano contro. «Mi spiace dare cattive notizie» ha risposto la filosofa, «ma non c’è aspetto della liberazione queer che non possa essere corrotto e volto contro di noi, perché tutto può essere trasformato in moda, tutto può essere trasformato in merce, tutto può essere appropriato».
Non si può sperare di trovare «l’idea giusta, il discorso giusto che resisterà a questa appropriazione». Quello che è possibile fare è sviluppare strategie in grado di anticipare l’appropriazione e resistervi.
Il movimento anti-ideologia gender non crea solo fantasmi, ma alimenta passioni di odio che privano alcune persone dei loro diritti e spingono verso uno Stato autoritario. È facile che in una situazione simile la filosofa lasci lo spazio all’attivista e in alcuni punti il tono di voce di Judith Butler ha tradito una comprensibile indignazione. Ma è importante, anche di fronte alle ingiustizie, mantenere un tono razionale e intellettuale: «Non sto urlando: sto cercando di non urlare così posso pensare. Ma le urla ci sono».
In occasione di un suo viaggio in Brasile, alcuni anni fa, Judith Butler era stata accolta da manifestazioni di protesta, anche violente. Più recentemente è stata in Florida, Stato che ha messo al bando diversi libri sulla teoria di genere. «Non sono certo l’unico bersaglio, qui, e quando una persona viene presa di mira è tentata di andarsene, pensando alla stupidità di chi ci attacca, ma proprio per il fatto di essere un bersaglio abbiamo una piattaforma dalla quale possiamo farci ascoltare».
Il gender è diventato un terreno di scontro: il passaggio da ‘Gender Trouble’ del 1990 e ‘Chi ha paura del gender?’ del 2024 è segnato proprio da questo, dalla trasformazione di una radicale teoria di liberazione in un fantasma creato e sfruttato per giustificare movimenti autoritari.
Proprio per questo è necessario continuare a parlare di gender: prima era “soltanto” una questione di uguaglianza e di libertà, di creare una società accogliente per tutte le persone; adesso è anche e soprattutto una questione di resistenza. Non vi sono questioni più urgenti o più importanti o meno controverse, perché tutto è interconnesso. Ma di questo ci possiamo rendere conto solo se, invece di urlare, ci mettiamo a pensare e a costruire un immaginario alternativo che affermi l’uguale valore di tutte le vite.