Ne parliamo con Jamileh Amini, presidente dell’associazione ticinese Accat che in Afghanistan ha creato una scuola clandestina in cui studiano 80 ragazze
Con le mani vuote e l’angoscia in cuore, nella silenziosa indifferenza generale, da qualche settimana a questa parte ogni giorno in Iran migliaia di profughi e lavoratori immigrati afghani sono caricati su dei camion e trasportati a forza oltreconfine, verso il loro Paese d’origine, una terra messa in ginocchio e abbandonata tra i tentacoli di un regime repressivo. Del nuovo ennesimo dramma che sta colpendo il suo popolo ci parla Jamileh Amini, fondatrice e presidente dell’Associazione comunità culturale afghana in Ticino (Accat): «È in corso una tragica ondata di rimpatri forzati unita a un massiccio aumento di discriminazioni sistematiche. Un’ulteriore crisi umanitaria – la stima è di 1,5 milioni di deportati da inizio 2025 – che viene ignorata dal mondo», commenta Amini che da 14 anni vive a Lugano e che ha trascorso la prima parte della sua infanzia in Afghanistan sotto il controllo dei talebani, gli stessi che dopo 20 anni di occupazione statunitense nel 2021 sono tornati al potere rigettando la nazione nell’oscurità.
«Quella attuale non è un’emergenza improvvisa – dice Amini –. Già in precedenza la vita degli afghani in Iran era segnata da forti discriminazioni e precarietà. In molti sopravvivevano a fatica, senza status legale, esclusi dall’accesso all’istruzione, alla sanità, e al mercato del lavoro formale. Eppure, nonostante tutto, riuscivano a sostenere le loro famiglie lavorando duramente nei settori più umili». Oggi però, afferma allarmata la nostra interlocutrice, «la situazione ha raggiunto livelli inaccettabili. In diverse città è stato vietato ai panettieri di vendere pane agli afghani, privando intere famiglie dell’alimento base. Numerosi proprietari di casa si rifiutano di restituire le cauzioni agli inquilini afghani espulsi, lasciandoli così senza risparmi. In alcune zone, cartelli discriminatori affissi agli ingressi riportano frasi agghiaccianti come: “È vietato affittare locali agli afghani”». L’Iran ha nettamente intensificato i rimpatri e i processi di umiliazione pubblica – fatti anche di vere e proprie aggressioni e del furto di documenti – a seguito della guerra lampo con Israele (13-24 giugno), accusando i rifugiati afghani di essere una minaccia per la stabilità economica e la sicurezza interna.
«Senza che venga risparmiato nessuno – tra i deportati ci sono minorenni non accompagnati, donne incinte, anziani e malati, e pure persone che hanno trascorso la loro intera vita in Iran e che si ritrovano catapultate in una terra che è loro estranea e a cui sono legate solo sulla carta, rileva Amini – un popolo a cui talvolta non è nemmeno dato il tempo di raccogliere i propri effetti personali si trova sballottato come merce, caricato e scaricato in una terra devastata da povertà, violenza, insicurezza e carestia, spesso in assenza di un’abitazione e di una rete familiare».
L’Afghanistan, piegato da una gravissima crisi economica e sociale, non ha infatti le risorse necessarie per accogliere quest’ondata di diseredati che acuisce una situazione già di estrema vulnerabilità. Il ritorno forzato di massa rischia peraltro di aumentare la violenza, avverte Amini, «perché la lotta per la vita tra persone può molto più facilmente sfociare nell’uso della forza e della prevaricazione».
Tra le persone che sono state costrette a rimpatriare si trova anche la sorella più giovane di Amini: «Mi ha confidato di non farcela più e che l’unico suo desiderio è quello di lasciare il Paese. Fa tristezza che qualcuno speri di andarsene dalla propria patria, ma l’Afghanistan non garantisce alcuna serenità e sicurezza sociale ai suoi cittadini. E io, come tantissimi altri, sono estremamente in apprensione per le sorti di tutta la popolazione rimasta laggiù».
Drammatica risulta in Afghanistan soprattutto la condizione delle donne. Dal ritorno al potere dei talebani, le libertà fondamentali sono state cancellate. «Le donne sono state allontanate dall’istruzione secondaria – il divieto emanato ha toccato 850mila ragazze – così come dal mondo del lavoro, confinate tra le mura domestiche in un isolamento che ha conseguenze devastanti. La situazione è tragica – rimarca Amini –. La loro salute mentale è compromessa perché sono private di ogni diritto e della possibilità di partecipare alla vita pubblica. Vivono in una condizione di silenzio forzato, senza voce né prospettive per il futuro».
L’isolamento sociale imposto dal regime si estende anche all’accesso alla sanità. La carenza di personale femminile e di medicinali si somma a regole discriminatorie, come l’obbligo di essere accompagnate da un parente maschio per ricevere cure, ciò che mette a repentaglio la salute e la vita stessa delle donne. Lo scenario è particolarmente cupo nelle aree rurali, ampie e spesso dimenticate. «L’Afghanistan non è tornato indietro solo di vent’anni, ma di cento», considera Amini. «Un Paese chiuso, in cui l’educazione è un reato, non può avere un avvenire. E tale mancanza di prospettive è la cosa peggiore».
In questo contesto di disperazione, l’Associazione comunità culturale afghana in Ticino ha scelto di non restare a guardare. Tre anni fa ha dato vita a un progetto che porta un nome carico di significato: ‘Omid’, che in persiano significa “speranza”. Si tratta di una scuola clandestina, presente in due diverse province afghane delle quali viene tenuto confidenziale il nome per garantire la sicurezza di chi vi partecipa e opera.
«Attualmente sono 80 le ragazze che stanno studiando con ex docenti che con il ritorno del regime avevano perso il proprio impiego e che ora possono nuovamente sostenere le loro famiglie. Crediamo che l’educazione e la sensibilizzazione siano fondamentali e così abbiamo realizzato questo progetto», spiega la presidente di Accat, che tiene a mettere l’accento sulla dimensione collettiva che consente di portare avanti questa e varie altre attività «basate sullo sforzo e il lavoro di un gruppo molto motivato presente sul territorio composto dai membri di comitato dell’Associazione, dalla comunità afghana e dai volontari ticinesi che ci supportano attivamente».
Omid, oltre a restituire alle giovani un’opportunità di istruirsi, dà anche loro una ragione per uscire di casa, la possibilità di sentirsi parte di una comunità, alleviando la sofferenza psicologica dell’isolamento. In un video proiettato qualche settimana fa durante un evento pubblico molto ben partecipato, organizzato a Lugano dall’Associazione comunità culturale afghana in Ticino, sono riprese alcune di queste 80 ragazze che ringraziano del sostegno parlando in inglese. «È stato un momento molto commovente», racconta Amini, per la quale il progetto costituisce «un atto di resistenza e una fiamma di speranza che continua a bruciare nonostante tutto».
La comunità afghana, dentro e fuori il Paese, si è mobilitata su base volontaria e umanitaria anche per cercare di organizzare aiuti per gli espulsi dall’Iran, distribuendo almeno acqua e pane. Un supporto che nella regione è iniziato anch’esso tre anni fa. «Ma questo sforzo non può e non deve sostituire l’azione delle istituzioni internazionali», evidenzia la nostra interlocutrice, rilevando come la mancanza di interesse da parte loro sia «una triste dimostrazione che quando non ci sono interessi economici o politici certi drammi rimangono nell’ombra».
Amini assieme alla comunità afghana rivolge pertanto un accorato appello urgente a governi e organizzazioni internazionali, istituzioni umanitarie, cittadini sensibili e responsabili affinché vengano condannate le deportazioni forzate e le gravi violazioni dei diritti umani, sia garantita immediata assistenza ai deportati e assicurata protezione a chi rischia persecuzioni e discriminazioni. «Questa non è solo una crisi di confine. È una crisi morale, che ci riguarda tutti, perché i diritti umani non hanno nazionalità» afferma Amini, che conclude invitando a non dimenticarsi del popolo afghano e richiamando «alla forza della solidarietà e alla collaborazione tra comunità che è ciò che ci guida».