Pubblichiamo il primo capitolo di ‘Non era un mostro strano’, in cui l’autore racconta una disavventura su un convoglio arrivato in Italia dalla Svizzera
Un sabato mattina di gennaio del 2024, io e Anna ci troviamo al binario 1 della stazione di Como San Giovanni. È una giornata molto fredda ma piena di sole e i raggi scaldano la banchina, le nostre schiene. Con i volti cerchiamo i raggi come se ne andasse del destino della giornata, dell’intero fine settimana. Aspettiamo il treno per ritornare a Milano, ma, come tutti, attendiamo soprattutto la primavera. Siamo stati a parlare di poesia in una scuola e, come altre volte, mi viene da pensare che la poesia abbia tanto a che fare con i treni, con il nostro accomodarci in modo che la testa possa sempre guardare fuori dal finestrino. L’esterno, lo spazio, il futuro. La tratta Como-Milano è generalmente gestita da Trenord (le ex Ferrovie Nord) da sola o in combinazione con i regionali di Trenitalia. Avremmo preso uno di questi treni, molto frequenti e poco costosi, ma nell’orario che ci faceva comodo era disponibile solo un Ec – EuroCity –, una variante del vecchio Eurostar, già scriverne il nome fa scivolare in un passato che pare lontanissimo e che invece è ancora qua, poco distante; un treno che arriva da Zurigo ed è gestito dalle Ferrovie svizzere insieme a quelle italiane. Il treno è puntuale, pensiamo banalmente che sia dovuto alla parte gestita dalla Svizzera. Ci affrettiamo verso la carrozza n. 5, dove ci sono i nostri posti, ed è in quel momento che sentiamo gridare. All’inizio non ci rendiamo bene conto di chi stia urlando e perché, poi vediamo sulla sinistra un uomo sui sessant’anni correre lungo la banchina come se fosse impazzito, è vestito di blu, indossa un cappello con visiera, è il capotreno. Correndo raggiunge un gruppo di persone che si trovano più o meno all’altezza della carrozza n. 3, in maniera concitatissima dice: «Non è un regionale, è un Eurostar, è un Eurostar, solo posti prenotati».
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Capotreno svizzero
Mi viene da ridere, mi domando che poteri sovrannaturali debba avere il capotreno per conoscere, ancora prima di vedere i biglietti, cosa abbiano acquistato quelle persone. Penso: gli svizzeri sanno cose che noi non sappiamo, solo che il responsabile del treno è italiano. Quei passeggeri non sanno che fare, indietreggiano, cercano i biglietti, si guardano intorno straniti. Noi intanto stiamo salendo sulla nostra carrozza, a quel punto arrivano nuove urla, stavolta sono più vicine, mi fermo al secondo gradino, il capotreno sta correndo verso di noi. E ancora: «Signori, signori, non è un regionale, è un Eurostar, solo posti prenotati». Io con tutto lo stupore del mondo rispondo, mostrando il Qr code sullo smartphone: «Infatti, li abbiamo prenotati», ma lui, preda ormai di quella che pare essere un’ossessione, esclama: «Dovete ancora farli?». Perdo la pazienza e alzo la voce – sembra una puntata di Specchio segreto, forse c’è il fantasma di Nanni Loy, nascosto con la telecamera nella sala d’attesa. «Li abbiamo già fatti! Guardi il telefono». Il capotreno, completamente preso dal ruolo, dice: «Però avete la carrozza n. 5, non è questa». E invece è proprio la n. 5, mi rendo conto di essere seccato, arrabbiato, confuso: «Guardi che questa è la 5, ma tutto bene? Si sente bene?». A quel punto borbotta qualcos’altro, forse delle scuse. Saliamo e ci sediamo, continuando a commentare l’assurdità della situazione.
Gli interni sono abbastanza carini, le poltrone sono blu, divise negli ormai classici gruppi da quattro, abbiamo i posti accanto al finestrino, la carrozza non è molto affollata. Si sente parlare tedesco, francese e in un paio di nostri dialetti, riconosco l’accento siciliano e dai posti alle mie spalle ascolto un frammento di una conversazione in napoletano. Non sapremo mai se il gruppo fermato accanto alla carrozza n. 3 sia poi salito o no. Il treno è partito in direzione Milano, non farà nessuna fermata intermedia fino alla Stazione Centrale. Mi rendo conto di essermi sentito quasi offeso; mai dopo tanti anni di viaggi su decine di diversi tipi di treni, soggetti a numerosi sistemi di prenotazione cambiati centinaia di volte nel tempo, mi era capitato un fatto del genere. Ma come si permette di fare questo a me? Io che dei treni amo tutto, certe volte ho amato persino i ritardi (non tutti, si capisce). Come ha potuto pensare quell’uomo che volessi salire su un Eurostar con il biglietto di un regionale? Non doveva permettersi. Con calma riflettiamo sulla questione. Intanto, i biglietti si controllano in treno, non certo suggerendo o minacciando al binario. Pur volendo concedere al capotreno le attenuanti generiche – chissà quanti alla stazione di Como, essendo abituati alla grande frequenza dei regionali, sono saliti sull’Ec con il biglietto sbagliato, costringendolo a un enorme carico di lavoro dal lago a Milano, chissà le multe, i litigi, nessuna possibilità di far scendere le persone in difetto fino al capolinea, e così via –, non capiamo un tale stato di agitazione e un atteggiamento che forse esula dalle sue competenze, magari è solo stressato, stanco o ha avuto una brutta giornata. Quando il treno mezzo svizzero arriva a Milano sorrido di nuovo, sopra i finestrini, un led segnala il numero di posto e il nome e cognome del passeggero. Il treno sapeva già della nostra salita a Como, il capotreno evidentemente no.
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Cosa c’è dentro?
Sul senso degli oggetti, sulla loro importanza il poeta polacco Adam Zagajewski ha scritto versi bellissimi. Descrive la pelle, perciò il bordo, il confine tra gli oggetti e noi, come qualcosa di levigato. Di preciso. Le cose, per Zagajewski, parlano, sfiorano tutto, parlano soprattutto quando tutto si fa silenzioso, nella sera, nelle sere di chi possiede gli oggetti, o crede di possederli. La poesia consente alle cose di rivolgerci le domande più intime, di chiederci se abbiamo provato sentimenti grandi come l’amore, dolori come il lutto. L’oggetto a noi più caro ci avverte della vecchiaia, ci ricorda che arriverà, perché l’oggetto misura il tempo e lo fissa nella nostra memoria. Zagajewski vuole affermare il profondo legame che esiste tra gli esseri umani e gli oggetti, l’immenso valore affettivo della «cosa» passata di mano in mano, da nonna a nipote, da madre a figlio, da un amico all’altro. E se gli oggetti sono in grado di raccontare ciò che hanno vissuto, la loro persona può permettersi di incalzarli sul lato sentimentale, ma sa già di sbagliare. Tale orologio ha attraversato tutte le generazioni della mia famiglia, sentiamo dire a volte. Oppure, non posso buttare quella Lettera 22, pur se non funziona più, perché era di mio padre. Io ancora mi dispero per non avere ricevuto nemmeno una delle coppole di mio nonno, dopo la sua morte, sparite troppo in fretta, preda degli zii o di chissà chi. Gli oggetti quasi sempre dicono bene chi siamo, tendono a somigliarci e noi somigliamo a loro, ci confortano e, sono d’accordo con Zagajewski, ci parlano, ci interrogano, a domanda interagiscono. Una storia passa di bocca in bocca, un oggetto passa di mano in mano, io mi rendo conto di essere passato di treno in treno. E non perché io sia l’oggetto delle ferrovie, ma perché il treno è il mio oggetto, la cosa del cuore, come il pallone da calcio, come i libri, i dischi. La cosa con cui mi muovo, parlo, ragiono, che prendo in giro. La cosa che mi ha salvato molto spesso, che mi ha portato – a volte in maniera liscia, altre in maniera rocambolesca – là dove volevo andare. Il treno è la parola che viene prima della parola casa.
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Treno di notte
Quando mi immagino, mi vedo seduto su un treno, accanto al finestrino, la carrozza è semivuota, il paesaggio fuori a volte è estivo altre invernale. Lo scenario estivo prevede sempre il mare, quello invernale prevede la pianura Padana. Sul tavolinetto che tengo chiuso per distendere le gambe il più possibile ci sono un paio di libri, un taccuino, due penne, una matita, quasi mai il computer. Sono andato con il treno da una casa all’altra, da una vita all’altra. Ne ho presi di tutti i tipi, regionali scassati, interregionali, rapidi, frecce del Sud, passanti, urbani, suburbani, notturni, intercity, eurocity, eurostar, frecce bianche, frecce argento, frecce rosse, trenini di ferrovie sconosciute, littorine, antichi, moderni. E ogni volta ho creduto di essere al sicuro, ogni volta ho un poco pensato che il treno prendesse me come si prende qualcosa di caro e lo si porta da una casa all’altra. Siamo fragili noi nelle nostre vetture, spesso scomode, sono fragili i treni che con le migliori intenzioni ci accompagnano dove ci pare. Io ai treni voglio bene, li vedo come strumento di salvezza, un treno che parte mi fa pensare sempre alla speranza.
Luigi Bernardi una volta ha scritto: «Il treno è partito, si fermerà soltanto a destinazione, così come sempre dovrebbe essere». Ecco, in quel «come sempre dovrebbe essere», nella destinazione dall’altra parte dei binari ho riposto gran parte dei miei sogni, dei miei desideri, e mi pare d’aver fatto bene. Perciò, anche oggi, dove è possibile, quando mi si chiede con che mezzo vorrei viaggiare, io rispondo: «Con il treno», e quando mi trovo in una qualunque stazione, magari di passaggio, per aspettare qualcuno che arriva, se passo accanto a una carrozza, e le porte sono aperte, il mio primo istinto è quello di salire. Prendiamo un treno?, mi sorprendo a dire alle persone care, e prima ancora della risposta, prima ancora di pensare a un bagaglio da riempire, mi pare che la malinconia, la tristezza, la pesantezza di certe giornate comincino a diradarsi, come succede a volte alla nebbia, quando dal nulla che vedi tra Milano e Bologna, di colpo ti pare di riconoscere qualcosa. Se mi guardo indietro vedo una cameretta, una ferrovia giocattolo, i treni, i semafori, il capotreno con il braccio alzato, otto ginocchia che predispongono e decidono i viaggi: quelle di mia madre, mio padre, mia sorella e le mie. Mentre scrivo mi trovo – di nuovo – su un treno, è un regionale veloce tra Venezia e Belluno, fuori dai finestrini un paesaggio che conosco poco: neve, lago, montagne. Siamo saliti senza essere inseguiti dal capotreno, mi pare un miglioramento. Il treno impiega due ore secche per fare un centinaio di chilometri; perciò siamo certi che sia un regionale, manifestiamo qualche dubbio sulla velocità che ne completa il nome. Ma è venerdì pomeriggio, non abbiamo particolare fretta, siamo disposti a perdonare la lentezza del viaggio, la prendiamo come una concessione.
66thand2nd
La copertina del libro
Gianni Montieri, ‘Non era un mostro strano’ (66thand2nd, 2025, p. 144)