Presentato alle Giornate di Soletta il documentario di Filippo Demarchi sulla sua esperienza di burn out
“Buongiorno a tutti. Volevo parlarvi oggi di una segnalazione: il ragazzo in questione si chiama Filippo, ha 34 anni e si è autosegnalato”. Si apre così, ‘Osteria all’undici’. E così si apre anche il percorso di reinserimento, dopo un burn out, di Filippo Demarchi, nella doppia veste di regista e protagonista di questo documentario presentato alle Giornate di Soletta e in concorso per il premio Visioni.
Regista e protagonista di un film, ma prima di tutto, in ‘Osteria all’undici’, cameriere in questa impresa sociale della Fondazione Sirio: nel corso del film scopriamo, attraverso ricordi e qualche immagine, cosa è successo, la sua prigionia autoinflitta, rinchiuso in casa mangiando pochissimo e leggendo in continuazione gli stessi libri, per farsi una cultura e “essere all’altezza” di irraggiungibili aspettative autoimposte dopo una deludente esperienza lavorativa. Poi il ricovero, l’invalidità e, appunto, la decisione di iniziare un nuovo percorso professionale lontano dal cinema: cameriere, all’inizio, e poi receptionist in un ostello. Ma, come ci ha raccontato dopo la (calorosamente applaudita) proiezione al Landhaus, il cinema resta una passione e così in questo percorso di reinserimento socio-professionale entrano due film.
Il primo è, appunto, ‘Osteria all’undici’ che vede Filippo confrontarsi e discutere con le altre persone che lavorano con lui, condividendo le proprie storie e le proprie esperienze, il che costituisce un efficace contrasto con l’autoisolamento del burn out e al contempo mostra quanto sia comune avere una qualche difficoltà psicologica (“ma tu hai già visto una persona normale?” chiede uno dei colleghi di Filippo, strappando un sorriso al pubblico).
Raccontare il proprio percorso in un documentario significa mettersi in gioco in prima persona. Mai pensato di rielaborare l’esperienza in una fiction? «Avevo già un arco narrativo semplice e preciso, senza bisogno di cambiare nulla, con la traiettoria da un periodo abbastanza scuro della mia vita a un periodo più luminoso, quello della reintegrazione professionale che stavo vivendo, quindi il reintegrarsi nella società». E il fatto di aver reso pubblica una esperienza così personale? «È vero che ho raccontato molto della mia vita e su alcuni dettagli ho riflettuto molto, se inserirli o meno. Ma d’altra parte che esperienza voglio far vivere allo spettatore? Lo spettatore sente se un autore vuole restare in superficie perché ha paura del giudizio degli altri. E se non si capiscono le cause di un processo così profondo, tanto vale non raccontarlo».
Il secondo film del percorso di reinserimento socio-professionale è, al momento, solo una sceneggiatura – e qualche scena di prova che è stata inserita in ‘Osteria all’undici’ –, ma la produzione dovrebbe partire. Altri progetti cinematografici non ve ne sono, a parte la collaborazione con alcuni festival come Castellinaria. «Non mi voglio caricare di tanti progetti come in passato» ha spiegato Demarchi che continua l’attività di receptionist. Del resto, ha aggiunto, «non ho mai pensato che fare il regista possa essere una professione vera, soprattutto in Svizzera: altri mestieri legati al cinema sì, riescono ad avere una continuità lavorativa nonostante la precarietà di contratti a tempo determinato, ma il regista dovrebbe seguire un progetto dalla pagina bianca alla distribuzione e no, non c’è possibilità di fare solo quello in Svizzera dove, al contrario ad esempio della Francia, la disoccupazione non ti riconosce i periodi in cui sei fermo a cercare altri progetti».
Anche per questo Filippo Demarchi continua a lavorare come cameriere e receptionist. C’è qualcosa che accomuna questi tre mestieri? Dopo averci pensato qualche minuto, risponde citando l’imprevisto. «Quando lavori in una reception o in un ristorante non sei mai sicuro di cosa succederà, non sai mai chi arriva, chi chiede una camera, chi vuole un piatto: sei sempre alla mercé dell’imprevisto. Sul set è la stessa cosa, perché non tutto è prestabilito. Il regista Jean Renoir diceva che sul set bisogna sempre lasciare la porta aperta, perché non sai mai cosa può entrare».