Cinque premi per ‘Anora’, tra cui quello per il miglior film. Segno di una Academy in trasformazione (e che sembra guardare poco alla politica)
Che cosa ci ricorderemo degli Oscar 2025? Molto probabilmente ce ne ricorderemo, quantomeno in Ticino, come l’anno in cui ha trionfato un regista, Sean Baker, che al Festival di Locarno è stato più volte, partendo dai Cineasti del presente nel 2008, proseguendo con il Concorso internazionale nel 2012 e, infine, nel 2018, come membro di giuria. E adesso è la prima persona a vincere quattro Oscar per lo stesso film, l’indipendente ‘Anora’ di cui è stato produttore (ritirando quindi il premio per il miglior film, regista, sceneggiatore e montatore). A questi quattro Oscar dobbiamo anche aggiungere quello per la miglior attrice protagonista, a Mikey Madison che ha interpretato la giovane prostituta che, dopo un incontro casuale in un club, si sposa con il figlio di un potente oligarca russo, lottando contro la famiglia di lui per affermare la propria dignità.
Ma in generale questi Oscar 2025 saranno probabilmente ricordati come quelli meno hollywoodiani di sempre. L’altro film che ha trionfato è stato infatti un altro film indipendente, vale a dire non prodotto dai grandi studi: ‘The Brutalist’ di Brady Corbet, premiato per il miglior attore protagonista (Adrien Brody), per la fotografia e per la colonna sonora. I due film segnano il record del più modesto risultato di botteghino prima degli Oscar, periodo pandemico a parte: con “soli” 15,7 milioni d'incasso (a fronte di un budget di 6 milioni), ‘Anora’ ha battuto in questa singolare classifica ‘The Hurt Locker’ di Kathryn Bigelow che nel 2010, quando vinse quale miglior film battendo ‘Avatar’, aveva incassato 17 milioni (che considerando l’inflazione sarebbero oggi 26). E poco distante si colloca ‘The Brutalist’, che con un budget di 10 milioni ne ha incassati finora 15,8, poco più di ‘Anora’.
Sono i risultati della trasformazione che l'Academy of Motion Picture Arts and Sciences sta attraversando da alcuni anni, tra diverse polemiche e alcuni passi falsi come i bizantini criteri di accesso sulla diversità e l’inclusione. Per fortuna a fianco di rigide quote per i gruppi sottorappresentati – un approccio al problema delle discriminazioni che è stato decisamente punito alle urne, ma di politica parleremo tra poco – si è deciso di intervenire sulla composizione dei membri, molto più internazionale di un tempo.
Tra le persone che votano per gli Oscar non c’è più quel dominio dell'industria hollywoodiana tradizionale. E così è capitato, ad esempio, che il lettone ‘Flow’ surclassasse, come miglior film d’animazione, le solitamente trionfanti produzioni Disney.
La sconfitta di ‘Emilia Pérez’ di Jacques Audiard potrebbe sembrare un’eccezione: un musical francese in lingua spagnola su una donna transgender messicana avrebbe sulla carta tutti gli ingredienti per trionfare, ma le 13 candidature si sono trasformate in appena due Oscar: miglior attrice non protagonista (Zoe Saldaña, che per il suo ruolo avrebbe anche potuto essere candidata come attrice protagonista) e miglior canzone originale (‘El Mal’). Qui hanno certamente giocato le controversie legate ai tweet razzisti scritti anni fa dalla protagonista Karla Sofía Gascón. Ma ha verosimilmente contato anche il fatto che ‘Emilia Pérez’ è infarcito di luoghi comuni e stereotipi, seguendo un approccio al racconto di altre culture che evidentemente non funziona più, quantomeno nella rinnovata Academy (ma ha funzionato a Cannes, dove il film ha ricevuto il Premio della giuria, e questo vorrà dire qualcosa).
‘Emilia Pérez’ non ha neanche vinto l’Oscar per il miglior film internazionale, andato al brasiliano ‘Io sono ancora qui" di Walter Salles che ha dichiarato che il premio “non è al mio film, ma al nostro Paese, alla nostra cultura e al nostro modo di fare cinema”.
Sean Baker si è invece speso per difendere l'esperienza cinematografica in sala: "Dove ci siamo innamorati del cinema? Al cinema. Guardare un film in una sala con un pubblico è un'esperienza. Durante la pandemia abbiamo perso quasi mille schermi negli Stati Uniti e continuiamo a perderli regolarmente".
Mikey Madison, come accennato, ha vinto l’Oscar come miglior attrice protagonista, superando a soli 25 anni la favorita Demi Moore (‘The Substance’). Un premio che Madison ha dedicato alla comunità delle sex worker: "Continuerò a sostenerle e a essere un'alleata. Tutte le persone incredibili, le donne che ho avuto il privilegio di incontrare sono state una parte fondamentale di questa incredibile esperienza".
Anche Adrien Brody – che con ‘The Brutalist’ ha ricevuto il suo secondo Oscar quale miglior attore protagonista vinto, come il precedente per ‘Il Pianista’, interpretando un sopravvissuto all'Olocausto – ha fatto un discorso dai toni politici. “Sono qui ancora una volta a rappresentare i traumi persistenti e le ripercussioni della guerra, dell'oppressione sistematica, dell'antisemitismo e del razzismo. Prego per un mondo più sano e più inclusivo. E credo che se il passato può insegnarci qualcosa, è un promemoria per non lasciare che l'odio continui indisturbato”.
Ora, senza nulla togliere a questi e altri discorsi, nella loro storia gli Oscar hanno visto momenti decisamente più militanti e quest’anno certo non mancavano i temi su cui lanciare messaggi forti. Sarà il disorientamento dell’area progressista americana dopo la rielezione di Trump e di fronte alle tante cose dette e fatte in questi primi mesi del suo secondo mandato, ma forse è anche la tentazione – aiutata da una Academy come detto più internazionale – a guardare altrove. Fatto sta che uno dei pochi guizzi della cerimonia è stato una sottilissima allusione del presentatore Conan O'Brien commentando il successo di ‘Anora’: “Immagino che gli americani siano entusiasti nel vedere che qualcuno finalmente resiste a un russo potente”.
Per fortuna che c’è stato l’Oscar al miglior documentario andato a ‘No Other Land’ del collettivo israelo-palestinese formato da Basel Adra, Yuval Abraham, Hamdan Ballal e Rachel Szor, selezionato all’ultima edizione del Film Festival Diritti Umani Lugano. Il documentario racconta le demolizioni israeliane di abitazioni palestinesi in Cisgiordania e nel suo discorso il palestinese Basel Adra ha chiesto al mondo “di intraprendere azioni serie per fermare l'ingiustizia e la pulizia etnica del popolo palestinese”, mentre l’israeliano Yuval Abraham ha affermato che “quando guardo Basel, vedo mio fratello. Ma siamo diseguali. Viviamo in un regime dove io sono libero sotto la legge civile e Basel è sotto leggi militari che distruggono vite".