Scritta diretta e recitata magistralmente, è la serie breve più vista di sempre su Netflix, e ci fa chiedere fino a che punto conosciamo i nostri figli
Dopo tanto tempo siamo tornati a guardare una serie Tv tutti, più o meno, insieme. ‘Adolescence’, su Netflix, è la serie inglese che ha monopolizzato le nostre attenzioni e i discorsi sulla nostra cultura in queste ultime settimane. Sarà anche perché breve, quattro episodi appena, o per l’argomento che affronta: la violenza giovanile e, in particolare, la violenza di genere giovanile. Tema tanto più attuale nello stesso periodo in cui Andrew Tate – accusato dalla giustizia rumena di aver adescato, insieme al fratello, delle donne e averle costrette a lavorare nel suo business di webcam pornografiche – viene ricevuto dalla corte di Trump con onori simili a quelli del “futuro presidente irlandese” Conor McGregor – lui, invece, già passato a giudizio a Dublino, e incriminato, per stupro.
Andrew Tate, ex kickboxer con doppio passaporto inglese e americano, viene nominato in ‘Adolescence’ insieme al concetto di “manosphere”: quell’insieme di influencer, siti, blog, forum che promuovono una cultura misogina e antifemminista. L’odio per le donne come se fosse una novità, come se non venissimo da secoli (dalla rivoluzione francese in poi, senza tirare in ballo la cultura greca) in cui le donne sono considerate qualcosa meno degli uomini. In che modo questa versione ridicola, ai limiti di una parodia involontaria, fatta di influencer muscolosi che infilano la testa in bacinelle di acqua frizzante mentre delle donne anonime gli preparano la colazione (qui mi riferisco a un altro trend molto attuale lanciato dal fitness guru che insegna la vita ai giovani, Ashton Hall), può influire sul comportamento di giovani influenzabili dipendenti da Internet? La serie ha avuto un tale impatto, sembra parlare di cose così urgenti, che persino il primo ministro del Regno Unito Keir Stramer e l’ex allenatore della Nazionale inglese Gareth Southgate ne hanno parlato.
Ma ‘Adolescence’ è andata così bene soprattutto perché è una serie Tv scritta, girata e recitata straordinariamente bene. Gli episodi consistono in quattro lunghe piano sequenze, una tecnica raffinata che non ci si aspetta da Netflix – che si è sbrigata a far uscire i video del making-off tanto per sottolineare l’artisticità dell’operazione, se non fosse stato chiaro – ma che serve anche ad aumentare il senso di asfissia. Nel primo episodio la telecamera irrompe nelle vite dei personaggi come l’evento che le cambierà per sempre, l’assenza di stacchi temporali o di cambi di scena rappresenta in modo piuttosto letterale l’idea di qualcosa di cui non ci si può liberare. In un periodo in cui la qualità delle serie Tv, in media, sembra essere scaduta, l’ambizione tecnica di ‘Adolescence’ è una parte grossa delle ragioni per cui è diventata la miniserie più vista di sempre su Netflix, con più di 66 milioni di view. Anche se, va detto, l’episodio più amato e forse il migliore in assoluto è il terzo, girato quasi interamente dentro una stanza, sostenuto più dalle grandi performance attoriali di Owen Cooper (il ragazzino protagonista) ed Erin Doherty (la psicologa che deve valutarlo) che dalle tecniche di regia.
Poi c’è la storia. Stephen Graham – creatore, scrittore e protagonista – è un idraulico inglese a cui la polizia butta giù la porta di casa nel cuore della notte. Sono venuti a cercare il figlio adolescente, appunto, accusato di aver ucciso una ragazza coetanea poche ore prima. Il figlio Jamie è interpretato da Cooper, un attore che oggi ha quindici anni ma che ai tempi della serie ne dimostrava dodici, difficile da immaginare con un coltello in mano. E il punto è proprio questo: chi riuscirebbe a immaginare che il proprio figlio possa uccidere qualcuno? Tanto più una ragazza della sua età? Un po’ ‘Adolescence’ gioca col senso di colpa cattolico che cova in molto del suo pubblico e in particolare di quei genitori che temono di essere poco attenti al benessere dei propri figli, magari perché lavorano troppo o perché non hanno i codici per interpretare il loro mondo.
Cosa abbiamo sbagliato, si chiedono Graham e Christine Tremarco, che interpreta la madre del ragazzo? Sono più vittime che complici, ma non sono neanche privi di responsabilità. Allo stesso modo, il ragazzo sarà anche colpevole di aver tolto la vita a una persona (non c’è mistero e quindi non c’è spoiler) ma è anche lui vittima di qualcosa di più grande.
Ecco quindi che bisogna parlare di “manosphere”. E della cultura internettiana fatta di emoji, cattiverie e solitudine. Possibile che non ci sia via di uscita, sembra chiedersi ‘Adolescence’? È tutto un problema di modelli maschili, di uomini che non parlano dei propri sentimenti, che si arrabbiano troppo facilmente? Oppure dovremmo controllare di più cosa succede nelle camerette dei nostri figli, non accontentarci di saperli “al sicuro”, come dicono i due genitori distrutti, alla fine? Le domande che si fa ‘Adolescence’ sono disperate perché senza risposta, il crimine che compie il piccolo Jamie sembra una determinazione sociale, frutto della povertà culturale in cui vive, e dell’assenza di istituzioni e figure adulte di riferimento (dei professori depressi, incapaci); oppure, in alternativa, sembra frutto della cattiva educazione dei genitori che, tutto sommato, sembrano due brave persone. Ogni padre e ogni madre ha difficoltà a capire i propri figli, ok, ma è possibile che un malessere gigantesco, come quello che deve provare un ragazzo che arriva a uccidere, sia invisibile?
Lo spazio che separa figli e genitori sembra una distanza incolmabile in ‘Adolescence’ perché l’omicidio è visto come la conseguenza di un’aberrazione, di un trend culturale, più che di una cultura vera e propria. Una cultura misogina e violenta, che disprezza l’uguaglianza e la solidarietà, che premia gli arroganti, i furbi, gli insensibili. Insomma, Andrew Tate è un sintomo o la malattia?