Il regista e autore italiano ha riportato in scena il suo testo, premiato nel 2015. Bella messa in scena ma con qualche dubbio
Dieci anni dopo aver scritto il testo, Emanuele Aldrovandi ha deciso di (ri)portare in scena ‘Scusate se non siamo morti in mare’, curando la regia dello spettacolo che ha avuto venerdì la prima al Teatro Foce di Lugano. Prodotto dalla Compagnia Mat in collaborazione con Lac e l’Associazione teatrale autori vivi, lo spettacolo andrà ancora in scena martedì 8 aprile alle 20.45, al Teatro Sociale di Bellinzona.
‘Scusate se non siamo morti in mare’ – testo che è valso ad Aldrovandi il Premio Riccione e il Premio Scenario nel 2015 – ci porta in un futuro indeterminato ma non troppo lontano, o forse un presente alternativo, dove l'Europa è diventata terra di emigrazione a causa di una gravissima crisi economica. Un rovesciamento di prospettiva rispetto all’attuale quotidianità che conosciamo attraverso fredde statistiche di arrivi e morti e occasionali cronache di salvataggi e dispersi: a emigrare sono gli europei, inclusi i figli di quelli che oggi arrivano via mare e via terra, a imbarcarsi su navi di fortuna o, come clandestini, su un mercantile. Quest’ultima è la soluzione scelta dai due uomini e una donna, interpretati da Tomas Leardini, Luca Mammoli e Sara Manzoni, che dopo una tempesta si ritrovano – insieme al passatore Mirko D’Urso, direttore artistico del Mat – alla deriva in mezzo al mare a bordo di un container.
Non sappiamo dove fossero diretti, non sappiamo neanche chi siano esattamente i tre migranti e il passatore, quale sia la loro storia, e cosa siano davvero disposti a fare pur di sopravvivere alla fame e alla miseria. Il testo di Aldrovandi è al contempo realistico e surreale, con continui cambi di tono e registro: si passa da un dialogo quasi comico – diverse e giustificate le risate in sala alla prima di venerdì – a ricordi dolorosi, chiamando attori e attrice a uscire dai personaggi con curiose digressioni sulle dimensioni dei container e anche momenti musicali. Una prova impegnativa, per chi è in scena, ma che i tre attori e l’attrice hanno superato a pieni voti.
Notevole la scenografia di Francesco Fassone, incentrata sul container che, ruotandosi e aprendosi, accompagna pubblico e personaggi attraverso i vari passaggi della narrazione, diventando ora prigione ora rifugio. Un continuo cambiamento di prospettiva, sia visiva sia conoscitiva.
‘Scusate se non siamo morti in mare’, come detto, è stato scritto un decennio fa, negli anni di quella che già all’epoca veniva chiamata “crisi europea dei migranti”. In questi dieci anni l’Europa ha imparato a esternalizzare il controllo, di fatto pagando i Paesi di transito per quelle violazioni dei diritti umani che per ora non ce la sentiamo di commettere qui da noi. Per ora.
“Mettere in scena un proprio testo dieci anni dopo averlo scritto, in un certo senso, è un po’ come lavorare sull’opera di un altro autore” ha scritto Aldrovandi. Ma in realtà si ritrova più nella posizione di Pierre Menard, personaggio di un racconto di Jorge Luis Borges che riscrive il ‘Don Chisciotte’ parola per parola, senza cambiare neanche una virgola, ma con un significato completamente diverso. Perché un conto è leggere una frase sapendo che è stata scritta secoli fa, un altro è leggerla sapendola scritta oggi. Certo il 2015 non è il Seicento di Cervantes, e quello di Borges era un brillante esercizio di critica letteraria, ma oggi il surreale ribaltamento di Aldrovandi ha, se non un significato, un retrogusto diverso. Che cosa ci dice, oggi, ‘Scusate se non siamo morti in mare’? Ci vuole allontanare dalla realtà immediata per permetterci di osservarla da una prospettiva diversa che rischiamo di non scorgere sopraffatti dalle emozioni dell’attualità? Oppure è un modo per anestetizzare quell’attualità?