Via dal piatto realismo per un viaggio epico e fondamentale guidato dalla fantasia. È il metateatro di Welles e De Capitani (superbo), visto al Lac
“Per far teatro c’è bisogno solo di una cosa, l’attore” tuona Elio De Capitani, capocomico. In scena c’è la sua compagnia costretta a interrompere le prove del ‘Re Lear’ per mettere in scena ‘Moby Dick’, con poca convinzione. C’è chi dice sia meglio Shakespeare, chi non trova ruoli da donna, chi non crede possa piacere al pubblico. Ma c’è anche chi sostiene che il testo abbia parecchio da dirci.
Ed è così. Gli spettatori già ne hanno sentore dopo il primo, intenso, monologo di Ismaele (Angelo Di Genio), e più avanza lo spettacolo più ne saranno convinti. “Non preoccupatevi dei gusti del pubblico: se non verrà più a teatro sarà a causa della peste (vi dice qualcosa?) e allora interrogheremo la Sfinge”, continua De Capitani, per il quale il teatro non è mai poetico “il teatro È poesia”, e il blank verse shakespeariano con cui è stato scritto questo ‘Moby Dick’ ce lo confermerà.
Ma di chi stiamo parlando, del Bardo o di Melville? Tutti e due e non solo, in questo meraviglioso ‘Moby Dick’ alla prova di Orson Welles (di cui De Capitani firma la regia), coprodotto dal Teatro dell’Elfo e dallo Stabile di Torino. Un’esperienza metateatrale alla quale siamo tutti invitati a partecipare, grazie al classico prologo shakespeariano in proscenio, e infatti viene citato proprio quello dell’Enrico V. Siamo esortati a lasciarci guidare dall’immaginazione, in assenza di scenografia, per ricostruire la baleniera Pequod, due o più oceani, e soprattutto il mitico capodoglio albino. E che bello, finalmente, evadere dal piatto realismo al quale spesso siamo costretti, per lasciarci andare alla fantasia, facendoci guidare in questo viaggio epico e fondamentale.
Il risultato è un’esperienza totale che il testo di Welles – e quindi la splendida traduzione di Cristina Viti – sostiene per più di due ore e venti di puro spettacolo, insieme al lavoro degli attori in scena.
In ordine sparso, in questo teatro civile nel vero senso della parola: c’è Lear che diventa Achab che poi torna Lear (sempre un superbo De Capitani); c’è la poesia di quei monologhi disseminati nel testo che ti si imprimono tra il cuore e la pancia – tra il latte delle balene e le fragole (grazie Cristina Crippa!) –, c’è una scenografia scarna e metallica che stride, si muove, si alza e cade, come gli oggetti su un’imbarcazione in tempesta; e poi quella vela enorme che si innalza, si svela, che diventa capodoglio e poi si richiude in mare, ricordando e parafrasando quell’“infin che ’l mar fu sovra noi richiuso” dell’Ulisse dantesco; ci sono i Sea Shanties stupendamente orchestrati e rifiniti da Francesca Breschi; e ancora maschere e piedi d’avorio, remi che si spezzano, la musica dal vivo di Mario Arcari, boccali che si scontrano e personaggi che si sfidano. Urlano al vento, al di sopra del mugghiare del mare, in quei versi sciolti che vibrano in un’aria densa di fumo, notte, tempesta e presagi. Alla fine arriva in scena anche il capodoglio, in un crescendo preparato ad arte.
L’epica trama è presto detta, il Moby Dick: e quindi insieme a Ismaele (Angelo Di Genio), che metonimicamente racconta tutti noi che guardando l’orizzonte sogniamo di andar per mare, partiamo sulla baleniera Pequod assecondando il capriccio mortale del Capitano Achab. Tutti sanno che l’impresa è folle: trovare e poi sfidare l’ormai leggendaria Moby Dick, che già tolse una gamba al capitano che infatti gli giura vendetta. Chi non lo sa verrà avvisato dalle premonizioni. E chi non ci sta dovrà soccombere per forza. Un vecchio logorato dall’odio, che solo il cuore di un tenero fanciullo (il folle Pip, Giulia Viana) potrà placare, così come il ricordo di una vita a terra, ora lontana, a cui di sé ha lasciato “solo una timida traccia sul guanciale”. Ma sarà tutto inutile, l’odio è più forte. E così quel capitano è un dittatore accecato che porta il suo popolo in guerra, la sua ciurma in rovina, il suo seguito in mare. Non a caso Welles scrisse questo spettacolo dieci anni dopo la Seconda guerra mondiale, non a caso oggi rimbomba forte nelle nostre casse toraciche.