laR+ La recensione

Un disperato bisogno di supereroine

Da un vecchio fatto di cronaca, Antonio Latella ha tratto lo splendido ‘Wonder Woman’, gigantesca manifestazione di protesta che lascia senza fiato

Visto al Lac
15 maggio 2025
|

‘Wonder Woman’, lo spettacolo di Antonio Latella, scritto con il suo storico drammaturgo Federico Bellini, è un pugno nello stomaco che lascia senza fiato ma al contempo è forza propulsiva che spinge il pubblico se non a reagire perlomeno a provarci.

Lo spettacolo è stato scritto nel 2021 in Germania e solo ora arriva in Italia, insieme al suo gemello ‘Zorro’, altra drammaturgia originale basata sulla figura di un supereroe. E se in ‘Wonder Woman’ la supereroina è paladina, come da imprinting datole dal suo ideatore Marston, della lotta contro la violenza sulle donne, in ‘Zorro’ la difesa va alla povertà.

Ma torniamo a quanto andato in scena le scorse sere al Lac di Lugano, ‘Wonder Woman’. Questo è un oratorio laico, un’istruttoria emotiva, un processo in cui la vita diventa colpevole, i carnefici sono donne spietate, il coro è la gente che mormora. Sul palco quattro attrici formidabili e coraggiose, Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Renzi, Chiara Ferrara e Beatrice Verzotti si alternano in un monologo suddiviso in quattro momenti. La loro sincronicità è stupefacente, il loro è un coro polifonico che passa da racconto a presa di coscienza, in cui assistiamo alla trasformazione della donna in supereroe, forse, o in umanissima amazzone.

Ancona, 2015

Lo spettacolo nasce da un fatto di cronaca avvenuto qualche anno fa. Nel 2015 ad Ancona una ragazza peruviana, dettaglio purtroppo come immaginerete non trascurabile, denuncia alcuni suoi coetanei di stupro. Ha avuto un bel coraggio, le dicono, a presentarsi così, senza genitori e senza essere sicura di quel che dice. In realtà la ragazza, soprannominata crudelmente Vichinga perché così l’ha salvata in rubrica uno dei suoi aggressori, è molto sicura di quel che sta dicendo. Lo dimostreranno le operazioni alle quali si dovrà sottoporre per ricostruire parte di sé, i test tossicologici, le trasfusioni… ma questo dopo. Perché inizialmente non viene creduta, né dalla polizia, né dalla giuria in tribunale e nemmeno – quel che è peggio – da suo padre, che se ne andrà di casa. Il testo che racconta questi fatti è crudo e a tratti insopportabile, come ha ragione d’essere.

Al processo la corte d’appello, presieduta da una giudice e rappresentata da tre giurate, assolve gli imputati, sulla base dell’aspetto fisico della ragazza – considerata da una fotografia troppo mascolina quindi incapace di destare desiderio! –, della sua nazionalità, giovane età, comportamento. Un gran bla bla bla, quello delle giudici, che in scena viene rappresentato con una mirabile sequenza cantata ed esibita in smorfie. In generale va detto, questo coro di attrici cede spesso alla ripetizione ossessiva di numeri (di birre bevute, di gironi infernali), di sillabe, di gesti, nella splendida danza finale. E questo non fa che trascinare il pubblico dello spettacolo in una spirale dalla quale sarà difficile uscire.

Quella cui assistiamo non è solo la narrazione dei fatti, ma la rielaborazione, la molteplicità dei punti di vista. E questo fa la grandezza del teatro, che non deve solo raccontare, ma può rileggere, fare proprio e restituire, un fatto realmente accaduto. Perché il pubblico lo recepisca veramente, altrimenti – credo – sarebbero solo parole che ci siamo assuefatti ad ascoltare in podcast, dirette televisive, video brevi.

La forza (e il fascino) delle idee

La sentenza verrà ribaltata in cassazione due anni dopo, i colpevoli condannati, la ragazza riabilitata. Ma chi si preoccupa della traccia che questa orribile vicenda avrà lasciato in lei?

Lo Stato, che dovrebbe trattare tutti cittadini in egual modo, e che quindi, ovviamente, avrebbe dovuto proteggerla, l’ha denigrata, sottoponendola a un interrogatorio stillicidio, a una sentenza crudele e umiliante a opera di giurate che in scena vengono paragonate a Erinni, l’ha respinta insomma. Per questo entra in scena ‘Wonder Woman’, perché oggi, più che mai, abbiamo bisogno di supereroi. Anzi, di una supereroina, la prima della storia, quella della DC Comics, creata nel 1941 dallo psicologo William Moulton Marston, che non vedeva nella produzione di fumetti protagoniste femminili. Una superdonna, Diana Prince alias Wonder Woman, simbolo e modello in grado di portare avanti con la forza (e il fascino) le idee delle donne, ambasciatrice contro la violenza sulle donne.

Così le quattro attrici si trasformano in amazzoni coraggiose e, come la supereroina, fanno roteare il loro lazo per catturare la verità, quella che manca alla ragazza di Ancona. Verità che è tra l’altro un altro chiodo fisso di Marston, al quale si deve anche l’invenzione del poligrafo.

Ni Una Menos

‘Wonder Woman’ affonda le radici in quel Ni Una Menos nato in Argentina nel 2015, il movimento di rivolta in difesa dei diritti delle donne, e in effetti sul finale siamo trascinati tutti in una gigantesca manifestazione di protesta. Gigantesca perché ci coinvolge a tutto tondo, grazie alla coreografia, alla musica, all’energia sprigionata dalle attrici. Franco Visioli, Leone d’Oro alla carriera nel 2020 e storico sound designer di Latella, firma musica e suono, i costumi sono a opera di Simona D’Amico (stupende le corazze e le collane tribali) e i movimenti (una sequenza finale che si fa rito collettivo) curati da Francesco Onetti e Isacco Venturini. Il tutto è uno spettacolo incredibile di un’ora e mezzo, nel quale ritmo e tensione non calano mai, nel denunciare con forza una società patriarcale perpetrata purtroppo sempre più spesso dalle stesse donne.