In Concorso è passato ‘Nouvelle Vague’ di Richard Linklater. Applausi per ‘La petite dernière’ della francese Hafsia Herzi
Un intenso weekend di film, di divi e dive e di appassionati di cinema e di curiosi che hanno invaso sale, strade, ristoranti, panifici e bar in tutta Cannes, con una esplosione notturna di folla alla festa più esclusiva del Festival, quella della Campari. Anche questa è Cannes e a farne parte scopri che è una grande famiglia.
A dare il via al lungo fine settimana è stato il leggendario Bono, senza U2, per presentare un film, ‘Bono: Stories of Surrender’, del noto regista e sceneggiatore australiano-neozelandese Andrew Dominik. Diciamo subito dell’emozione indimenticabile che il film regala chiudendo con il rocker che canta ‘Torna a Surriento’ con la sua voce che rompe frasi e musica in una continua ricerca di intonazioni che non gli appartengono propriamente, ma costringendo la sua gola a un sforzo necessario per ricordare la figura del padre morto e di Luciano Pavarotti, l’amico scomparso. In una performance in stile one-man-show Bono si è esibito al Beacon Theatre di New York e al Grand Rex di Parigi, dove ha offerto solo una quindicina di date agli ‘happy few’ che hanno avuto la fortuna di assistere al suo tour ‘Stories of Surrender: An Evening of Words, Music and Some Mischief…’ da cui è stato tratto il film di Dominik. Scopriamo così l'artista che svela la sua vita straordinaria, a cominciare dalla prematura perdita della madre, che ricorderà in alcune canzoni, ma anche tutta la sua famiglia, che sente legata e ispiratrice, come i suoi amici e la fede che non ha mai perso. Il film rivela le storie personali che hanno segnato il suo percorso di figlio, padre, marito, attivista e rockstar. Il bianco e nero è abbagliante e colora la mente, che non si sarebbe accontentata di un concerto, così le canzoni che scivolano nello spettacolo vanno da ‘Sunday Bloody Sunday’ a ‘With or Without You’ con il pubblico in sala che canticchiava sottovoce.
Cinefili felici invece per un atteso film in competizione: ‘Nouvelle Vague’ di Richard Linklater, un divertissement sul mitico Jean-Luc Godard mentre gira, nella Parigi del 1959, ‘À bout de souffle’, il suo lungometraggio d’esordio. Sullo schermo passa la redazione dei ‘Cahiers du cinèma’ di quegli anni e il mondo di attori e attrici e registi a loro legati, a cominciare dal loro mito Roberto Rossellini che con il suo esempio condivideva e infuocava la loro idea di creare un cinema nuovo. Il film mostra Godard (un credibile Guillaume Marbeck) mentre cerca i fondi per girare il suo primo film, senza invidia per François Truffaut e Claude Chabrol, che avevano già iniziato, tentando di cambiare da dentro il cinema francese. Lui ha un’idea di libertà creativa che non può essere chiusa in uno schema, sta cambiando l’idea di cinema, niente studi per girare, ma la strada, le stanze vere. E niente luci, con un direttore della fotografia, Raymond Cauchetier, che era inviato di guerra in Vietnam, uno che accetta le sue idee e le sue follie, quando lo costringe in un carretto della posta per i movimenti in verticale. Scopriamo i rapporti di Godard con il produttore Georges de Beauregard, la lotta fra le loro idee non solo verbale ma anche duramente fisica. Godard si guadagna il film e poi lo condivide con la piccola troupe e la ridotta squadra tecnica, è la prima rivoluzione: uscire dal sistema. Bello il suo incontro con Jean-Paul Belmondo (Aubry Dullin), l’amico di una vita, il pugile che diventa attore, ma soprattutto cerniera del film è l’incontro con la diva americana Jean Seberg (la bravissima Zoey Deutch) che sbarca a Parigi per colpa del marito, amico di Godard che un po’ l’ha imbrogliata. Non c’è simpatia. Lei si sente tradita, abituata al sistema hollywoodiano, si sente usata da Godard fino alla fine del complicato girato. Morta a quarant’anni, proprio per questo film resterà nella memoria del grande cinema. Richard Linklater ha il merito di non puntare a un biopic ma all’emozione del cinema che rinasce nella terra in cui era nato grazie a un uomo, Jean-Luc Godard, e al suo capolavoro, uno dei tanti.
Tracce di Cinema le ritroviamo in ‘La petite dernière’ della realizzatrice francese Hafsia Herzi che ha scritto anche la sceneggiatura, affidando il ruolo della protagonista alla sorprendente Nadia Melliti. La vicenda si basa sul cammino iniziatico della diciassettenne Fatima, la figlia più giovane, la ‘petite dernière’del titolo, di una famiglia di immigrati algerini, capace di offrire alle tre figlie femmine grande allegria e affetto. Fatima è molto religiosa, si alza a pregare al mattino con il suo nero chador, per poi vestirsi come le giovani della sua età. Preferisce far parte di una compagnia di maschi che la rispetta, anche perché ama giocare a calcio. Ha un ragazzo, che non ha presentato alla famiglia, uno che la vuole sposa e madre, e questo la impensierisce. Passata dal liceo all’università scopre la sua omosessualità. Lasciato il ragazzo, Fatima inizia una storia d’amore con un’assistente medica coreana che ha conosciuto per la sua asma. Le due donne vivono intensamente il loro rapporto. Tuttavia, Fatima è inquieta riguardo alla conciliazione con la sua religione e decide di consultare il suo imam, fingendo di parlare della situazione di un’amica. Nonostante non riceva una risposta incoraggiante, si sente comunque determinata a perseguire la sua scelta sessuale, pur continuando a nasconderla alla famiglia. Una crisi del rapporto mette Fatima di fronte alla scelta di cosa fare: si avvicina di più al mondo lesbico e vive rapporti fragili, finché… Film molto intimo e pudico anche se deciso nel raccontare l’omosessualità come scelta civile e morale. Ben diretto e interpretato il film ha meritato gli applausi.
Applausi anche per il giapponese ‘Renoir’ di Hayakawa Chie che ambienta il suo film nella Tokyo del 1987. Protagonista è una bambina di 11 anni Fuki (la brava Yui Suzuki), che vede cambiare la sua esistenza quando l’amato padre viene condotto in ospedale per una grave forma di cancro. Mentre sua madre sembra voler chiudere anzitempo un periodo della sua vita, lei resta sospesa, senza rendersene conto corre il rischio di finire nelle mani di un sadico, imbambolata di fronte alla tragedia. È un film ben raccontato, con bella pulizia di linguaggio e profondo dettato umano. Non hanno convinto invece ‘Die My Love’ di Lynne Ramsay e ‘Eddington’ di Ari Aster. Il primo è di una regista, Lynne Ramsay, che è alla sua ottava selezione a Cannes, dove torna con un film tratto da un romanzo dell'autrice argentina Ariana Harwicz. Qui i due protagonisti sono interpretati da Jennifer Lawrence e Robert Pattinson: da New York i due focosi innamorati si trasferiscono in un paesino tra i boschi in una casa isolata, scelta perché lei possa tranquillamente scrivere e lui possa stare per lavoro lontano da casa e condire di trofei la sua sessualità. Il problema è che per questo trascura lei, che incinta mette al mondo un bambino che la porta a sentirsi schiava della situazione e a non riuscire più a scrivere. Il tutto è mal raccontato e troppo tirato attorialmente per avere un applauso. ‘Eddington’ di Ari Aster ha solo il merito di ricordarci che negli Usa nessuno ha dimenticato la frontiera ottocentesca, anzi la celebrano violentemente quotidianamente. Peccato che questo pseudo western dei nostri giorni sia inutilmente prolisso e pesantemente noioso, e neppure il fragoroso finale ha svegliato il mio vicino di posto. Inutile.