Arturo Brachetti, stasera e domani al Lac, ci racconta il suo spettacolo ‘Solo’, tra 65 personaggi, raggi laser e la battaglia tra sogno e realtà
Arturo Brachetti ha recuperato l’arte teatrale del trasformismo, salvandola dal mondo degli insulti politici nel quale il termine sembrava confinato. «La trasformazione è vita: se non c’è trasformazione non c’è vita nella natura, nell’universo e tutto il resto, se non c’è rinnovamento non c’è vita» ci ha spiegato l’artista che sarà, questa sera e domani, al Lac di Lugano con il suo varietà surrealista e funambolico ‘Solo’.
Come devo chiamarla, commendatore?
No, no, no, già se mi dai del ‘lei’ mi imbarazzo. Commendatore poi… e anzi, sarei cavalier commendatore, perché in Francia sono cavaliere delle arti e delle lettere e in Italia commendatore. E volendo anche dottore, perché a Torino mi hanno fatto dottore honoris causa. Divento sempre più interessante per quelle che sono a caccia di titoli ed eredità…
Testimoniano comunque un crescente riconoscimento per il suo, anzi tuo, lavoro…
Certo e non immaginavo di arrivarci: il mio sogno, quando avevo 16-18 anni, era arrivare a Parigi con un numero di dieci minuti nel posto più figo. E pian piano i sogni si sono sempre realizzati al di là delle aspettative. Tre anni fa, mi sono ritrovato a fare due opere liriche e non avrei mai immaginato che partendo come illusionista sarei arrivato al ‘Barbiere di Siviglia’. E al Festival di Salisburgo, che è l’olimpiade dell’opera, capisci?
Parliamo di ‘Solo’, spettacolo che ormai ha quasi dieci anni.
Sì, sono nove anni che gira l’Italia e l’Europa: solo l’anno scorso siamo stati un mese a Barcellona e un mese a Edimburgo, e naturalmente in spagnolo e in inglese. Poi abbiamo fatto la Francia per mesi e mesi… e sono tournée vere, non come certi colleghi miei che fanno una data a Parigi e dicono “tournée internazionale a Parigi”.
Nove anni e diversi Paesi con lingue e culture diverse. Come cambia lo spettacolo?
Un pochino ogni anno cambia, perché essendo un one man show non ci sono Shakespeare o Goldoni che ci bacchettano e possiamo fare un po’ come vogliamo. Ma non lo adatti ai Paesi dove andiamo: quel lavoro è stato fatto prima, scegliendo personaggi conosciuti nelle varie culture europee. Tant’è vero che non c’è Arsenio Lupin, perché è famoso in Italia e Francia ma non nel Regno Unito; non c’è Doctor Who, perché Doctor Who è famosissimo in Inghilterra ma in Italia manco sanno cos’è.
Quello che abbiamo fatto è stato renderlo sempre più dinamico e veloce, perché il problema è che anno dopo anno la soglia di attenzione si abbassa. Hai presente le serie televisive come sono sceneggiate? Il mio spettacolo è pensato in quella maniera. D’altronde io sono uno che si annoia spessissimo a teatro, non voglio che la gente venga a vedere il mio spettacolo e si annoi ulteriormente, anzi mi propongo di dare una rivincita all’interesse teatrale, perché nel nostro spettacolo c’è una sorpresa ogni 20 secondi.
Velocizzare anche i travestimenti? Più di quello per cui già sei famoso.
Il travestimento ormai lo faccio in uno o due secondi. Ma abbiamo velocizzato anche nel taglio, nell’editing del racconto. Lo spettacolo ha infatti un fil rouge, una storia molto semplice che parte dalla mia casetta, la casa in cui sono cresciuto. C’è un modello e ci entro con una GoPro, entro nel salone dove trovo la televisione e dalla televisione vengono fuori i personaggi delle serie televisive, entro nella stanza dei bambini e dal libro delle favole scaturiscono i personaggi delle favole, entro nel bagno dove praticamente faccio un pezzo dove uno invecchia mentre è seduto sul cesso… ogni stanza mi dà il La per un numero, ma facendo questo viaggio incontro la mia ombra. Tu lo sai, io sono un Peter Pan di 15 anni imprigionato in un corpo di 68: voglio continuare a volare, a sognare, a fare lo zuzzerellone come direbbe la mia maestra dell’asilo. Ma la mia ombra, che è la parte terrena di me, mi vuole portare verso il suolo, mi vuole mantenere coi piedi per terra. Tra l’altro la mia ombra è impersonificata e recitata da un attore americano, Kevin Michael Moore, che fa questo ruolo un po’ ingrato con il ciuffetto posticcio. Non parla, è un personaggio muto, ma mi scrive dei messaggi durante lo spettacolo tipo “invecchiare è obbligatorio, maturare è una scelta”, queste cose che quasi mi fanno venire la pelle d’oca. Però nello stesso tempo è un po’ come dire che è possibile, ed è anche giusto, rimanere bambini ma coi piedi un po’ per terra. Si può fare, tanto è vero che io ci sono riuscito e penso che questa specie di gioco e di pensiero filosofico sia condiviso, che il pubblico si ritrovi in quello che dico.
Questo alter ego non è una figura del tutto negativa?
No, è il saggio, ma il saggio a volte può sconfinare nel pedante. È un saggio molto concreto, mentre invece io voglio volare. Tant’è che quando mi chiedono – magari anche tu avevi pronta la domanda – “ma qual è il personaggio che ti piace di più?” rispondo che non esiste perché i personaggi sono tutti così brevi, in questo spettacolo sono 65 e io praticamente il momento in cui godo di più è quando volo verso la fine dello spettacolo. Finalmente volo, mi stacco da terra, il mio corpo sale un metro, due, tre, sei, sette, vado su a livello della galleria, mi muovo a destra, a sinistra, faccio decine di metri. A quel punto il Peter Pan dentro di me gode e mostro che si può ancora volare e rimanere bambini, quando è il momento, mentre in altri momenti, invece, bisogna avere i piedi per terra. Devo dire che per fortuna l’Imu e le tasse le paga mio fratello al posto mio, lui è la parte produttiva della famiglia ed è lui che invecchia più di me poverino… io faccio la cicala che continua a cantare finché può, finché il fisico c’è, però meno male che c’è la formica a casa che organizza tutto.
Tuo fratello è il vero alter ego nella vita reale?
Il mio alter ego in scena è Kevin Moore, ma nella vita sì, è mio fratello.
Fratello maggiore o minore?
Più giovane di 7 anni, però spesso ci dicono che sembro più giovane io. Ma c’è un trucco! Poi lui è sposato, ha i figli, ha tutti quegli ostacoli… gioiosi per carità, però mica tutti siamo chiamati ad avere dei bambini, meno male.
Nel descrivere lo spettacolo hai spesso usato il ‘noi’. Escludendo il plurale maiestatico, mi sembra che nonostante si intitoli ‘Solo’ ci siano molte persone coinvolte.
Certo, infatti io esigo che loro escano fuori al finale: c’è tutta un’équipe che in tournée è meravigliosa ed è giusto che il pubblico la veda, perché capisci che il nostro spettacolo è una macchina di sorprese, però è un grande orologio in cui ognuno ha un ingranaggio. Io sono il cucù che esce fuori ogni tanto, mi si vede, faccio “cucù” e la gente applaude, però se non c’è l’ingranaggio dietro col cavolo che esce il cucù. Proprio poco fa i miei collaboratori mi hanno detto che “lo spettacolo lo facciamo dal momento che comincia a che finisce” perché sai in altre produzioni un macchinista teatrale entra, mette una sedia e poi sta 20 minuti su TikTok prima del prossimo cambio. No, nel nostro spettacolo non c’è tempo di andare sui social nei momenti buchi, perché non ci sono i momenti buchi: tutti sono molto responsabilizzati e sentono anche il peso, ma anche la gioia di questo lavoro, perché immagina un macchinista nelle quinte che tira una corda e sente che il suo gesto ha provocato un applauso, perché dall’altra parte spuntano venti girasoli. È un premio immediato, non solo a me, ma a tutti!
Avete, immagino, anche un bel po’ di macchinari…
Sì, stiamo girando con una bella macchina da guerra, tutto lo spettacolo è in videomapping, ma non un videomapping tanto per dire, non diventa un televisore. Abbiamo poi un momento di lotta con i laser, contro la mia ombra ovviamente…
La battaglia con i raggi laser immagino non sia stata solo inserita per stupire il pubblico con effetti speciali.
Esattamente: quel numero ha comportato tre mesi di programmazione nel computer e prove varie in studi di danza, ha una base tecnica ma parte da un’idea drammaturgica. Volevo visualizzare il momento di lotta, di antagonismo tra il me Peter Pan sessantottenne e l’ombra. Questa è la ragione drammaturgica che ha portato a questi quattro minuti che sono costati una macchina laser, un ingegnere italiano, un ingegnere francese che è venuto… è stato un parto molto lungo, ma alla fine funziona e porta avanti la storia, non è solo per far vedere che abbiamo un laser e sappiamo sparare dei raggi così, tanto per fare.
È un po’ la stessa filosofia di quelli che mi imitano: quando ho cominciato nel ’79 ero l’unico al mondo, poi sono cominciati a fiorire intorno a me tutti questi trasformisti che mi hanno rubato praticamente tutti i trucchi. A volte mi dicono “ma non ti sei arrabbiato?”. Sì, all’inizio mi scoraggiava e poi ho capito che mi rubavano l’hardware, ma non il software, perché uso la trasformazione e la metamorfosi come parte di un racconto teatrale. Tant’è vero che le mail che io ricevo non sono il “come cavolo fai?”, ma “io sono venuto a vedere quello che si trasforma, dopo dieci minuti mi hai steso e allora dico vabbè, vediamo dove mi porta questo treno del suo racconto”, che è la cosa più importante perché stiamo insieme 90 minuti attorno al teatro, non dieci minuti con un numerino da Tú sí que vales.
Ecco, dove porta questo treno, questo racconto?
Il treno di ‘Solo’ porta a una riflessione molto semplice: io sono un uomo che vorrebbe rimanere sempre eternamente bambino, ma l’ombra mi tiene anche un po’ sulla terra. Il compromesso è voler volare come un bambino, con la fantasia, però con i piedi per terra. L’ultima frase dello spettacolo è “non è poi così grave voler rimanere per sempre un po’ bambini, anche la tua ombra è felice di vederti volare” ed è molto sentito dal pubblico: la gente, non dico che c’è la lacrimuccia, però si sente coinvolta. Soprattutto gli ultraquarantenni, perché è chiaro che questo pensierino a uno di 15 anni non gli fa né caldo né freddo.
Insomma, Brachetti ci dice si può sognare anche con i piedi per terra.
Bisogna sognare con i piedi per terra! Perché se uno sogna e basta, alla fine quelle cose che sogna non le realizza: ci vuole una certa pragmaticità, una concretezza che poi fa realizzare i sogni. Lo vedo nel mio lavoro: quando dico “sarebbe bello poter salire sulla scala e poi cominciare a volare” è assurdo, sulla carta sembra impossibile; poi dopo pian piano uno lo fa, dice “allora, siamo a teatro, questo deve essere possibile per chi? Per quelli che stanno davanti, chiaramente quelli dietro vedono un’altra realtà eccetera”. E questo vale anche nella vita normale: è una forma mentale.