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La responsabilità della storia di Charlotte

Intervista al regista svizzero Rolando Colla, in Ticino per accompagnare ‘Charlotte, una di noi’, uno sguardo insolito sul disagio mentale

Charlotte (Linda Olsansky)
(peacock)
4 giugno 2025
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«Volevamo dare a una persona con un disagio mentale la responsabilità della storia, raccontarla dal suo punto di vista». È da questa idea che è nato il film ‘Charlotte, una di noi’ che il regista Rolando Colla presenterà oggi alle 20.15 all’Iride di Lugano e domani alle 19.30 all’Otello di Ascona.

La forza del suo film sta proprio nella capacità di mostrarci il mondo attraverso gli occhi e soprattutto la mente della protagonista Charlotte (interpretata dalla notevole Linda Olsansky, anche co-sceneggiatrice con Colla), una donna di 42 anni con schizofrenia. Vive sola con il padre tamocco (come in Trentino vengono chiamati gli altoatesini che parlano solo tedesco) in montagna e quando lui ha un infarto e non può più occuparsi di lei il fratello, partito anni prima per andare a lavorare in Svizzera, cerca di aiutarla.

È stato difficile scrivere il film da questo punto di vista?

Conosco personalmente il tema e lo conosce personalmente anche Linda Olsansky, per cui raccontare la storia dal punto di vista della protagonista, di Charlotte, non è stata la cosa più difficile, anzi direi è stata quasi la cosa più facile. Ha invece preso del tempo rendere la percezione di Charlotte che a volte naturalmente è disturbata perché vede delle ombre, perché vede le cose deformate o sfocate. Questo ha richiesto un lavoro di preparazione più importante del solito per capire i filtri e gli obiettivi da usare.

È anche dal punto di vista tecnico che capisci la forza del cinema nel presentare altri punti di vista.

Sì, secondo me con il cinema è effettivamente possibile creare un legame per il quale non servono spiegazioni, dove direi quasi a un livello intuitivo qualcosa arriva. Per esempio se prendiamo la scena in cui Charlotte insulta il bambino perché non vuole più andare a casa con lei a giocare, la sua è una reazione completamente esagerata: gli dice che è cattivo, che non potrà mai più venire a casa sua a giocare, che lo verranno a prendere e non lo porteranno più indietro… la reazione di Charlotte è completamente esagerata, è fuori misura, per di più contro un bambino che non si sa difendere, ma quando arriva nel film noi intuitivamente la possiamo capire. Se ci pensiamo, è pazzesco, come il cinema riesca a creare questo legame.

Charlotte ha un padre e un fratello, personaggi quasi antitetici.

Come detto, conoscendo la materia conosciamo anche il punto di vista del familiare che effettivamente non capisce certe reazioni. Nel padre abbiamo un atteggiamento di incomprensione quasi totale, se non di disprezzo, che drammaturgicamente giustifica il desiderio di Charlotte di partire, di andarsene e non tornare mai più.

Se con il padre abbiamo quello che in famiglia non capisce e che non vuole neanche confrontarsi con questo disagio, con il fratello abbiamo una situazione un po’ più ambigua: lui vorrebbe capire, vorrebbe aiutare, la porta sul posto di lavoro, la porta alla festa con gli amici, cerca di creare un legame con Charlotte, le chiede che malattia ha. Non c’è freddezza, da parte del fratello, ma a un certo punto anche per lui diventa troppo.

Mi sento molto vicino al fratello, come reazione, come atteggiamento. Il padre invece è un vero antagonista, un personaggio forse un po’ costruito, di quelli che vediamo di solito al cinema.

Il film rimane comunque fedele all’idea di capire senza voler giudicare.

Sì, è il desiderio di mettere al centro Charlotte, di provare ad avvicinarci a questa persona, anche se in sé è incomprensibile. Loro stessi, quando entrano in una psicosi, non capiscono cosa succede, perché è fuori controllo. Abbiamo voluto parlare di questo, parlare del disagio, della perdita del controllo su sé stessi, pur volendo in qualche modo far parte della vita, anche di una vita in comunità. I desideri sono quelli, non è che chi ha un disagio mentale non voglia far parte della società.

Senza svelare troppo della trama, diciamo che il film non ha un lieto fine. Neanche un finale tragico, ma diciamo che c’è una sconfitta.

Sì.

Secondo lei è una sconfitta più di Charlotte, che non è riuscita a far parte della società, o nostra che non siamo riusciti a trovarle un posto?

È una domanda bellissima e molto umana. Sarebbe perfetto, penso, se lo spettatore uscisse dalla sala portandosi dentro questa domanda perché un film non deve dare una risposta a tutte le domande.

Effettivamente, chi avrebbe potuto aiutare Charlotte? Sì, il fratello forse avrebbe potuto, ma non era possibile, non era nelle sue capacità.