Al Lazzaretto Vecchio di Venezia, il regista accompagna il pubblico in un viaggio visionario tra corridoi di pietra e buio totale
Prima di tutto, siamo sull’Isola del Lazzaretto Vecchio, a due bracciate dal Lido, ma distanti anni luce. Veniamo traghettati in questo luogo di morte – perché è di questo che si tratta ed è qui, anche, che si vuole arrivare, dall’affollatissima Riva degli Schiavoni, dove greggi di turisti si spostano in blocco e dove sembra confluire tutto il traffico pedonale veneziano che segue ombrellini e bandiere. Puoi già essere felice se hai un biglietto, per l’ambito spettacolo di Romeo Castellucci, l’accredito scordatelo: se non sei di un media su scala nazionale o internazionale vieni rimbalzato, perché i posti sono solo 20 a rappresentazione e tutti vi vogliono assistere.
Arrivati sull’isola, i muri sembrano parlare. In quegli attimi di necessario acclimamento prima dell’inizio di ‘I mangiatori di patate’, c’è il tempo di capire il luogo, percepirlo, sentirne la storia, cui il nome parla da sé. Lo spettacolo sembra già iniziato, siamo arrivati qui traghettati da un mondo pulsante e sbagliato, ci ammutoliamo in questi corridoi lunghi dove sembrano echeggiare lamenti di quarantene di seicento anni fa, e siamo pronti per un viaggio a ritroso, nelle viscere della storia, della terra, dell’uomo. I contorni sono indefiniti, la forza evocativa è forte, le musiche di Scott e Oliver Gibbons aiutano. Seguiamo una guida dopo aver ricevuto ordine tassativo di non spostare nemmeno un piede durante le soste, di fronte a certi accadimenti. Soprattutto quando ci troveremo nel buio totale.
Sono quattro le stazioni percorse lungo un corridoio di pietra e travi a vista, puro e materico come una via crucis, forse, o come una lunga discesa agli inferi da cui verremo salvati dai minatori. Di fronte a ogni stanza che si apre, tutte identiche e a identica distanza, uno spettacolo che si fa via via più complesso.
Nella prima un sacco nero che si muove a scatti a grandezza umana, è un grande bruco di terra, un corpo vivo peso morto; nella seconda la stessa cosa ma la struttura su cui penzola è una magnifica installazione tubolare. In entrambi stridii e cigolii, rumori e musica, luce calda di taglio, da finestre o artificiale poco importa, l’aria è intrisa di sabbia, si sente la materia, le visioni sembrano incubi premonitori, o reminiscenze di un inconscio collettivo.
Nella terza sosta, un braccio meccanico, nero si muove a scatti, è la tecnologia che nulla può, nemmeno risuscitare questi corpi mezzi morti già dati per spacciati. Poi la quarta stazione, le finestre coperte da un panno nero e il buio totale ci immerge, la musica diventa un fortissimo rumore di vento e rotaie, siamo nel mezzo di una bufera e la sensazione è quella di essere esattamente in mezzo a due binari i cui treni vanno nelle due direzioni opposte, ad alta velocità. Come a dire: questo è un momento presente tra il passato e il futuro, che sono di identica fattura. Fermati, guarda.
Dal fondo appare magnifico un angelo statuario, oppure è sempre stato lì, di fatto è la prima cosa che vediamo una volta aperti gli occhi su questa realtà altra. Poi arrivano gli uomini, i salvatori, i minatori, coi volti stanchi di fatica e nero e sudore, sono i minatori e i grassatori del Borinage, ritratti da Van Gogh, omaggiato fin dal titolo dello spettacolo: ‘I mangiatori di patate’ è una sua tela del 1885. Fanno luce sul mondo.
Questa sosta è lunga, è lo spettacolo. Una donna vestita unicamente del bianco della morte viene liberata da un sacco, le viene applicata una bocca parassita e inizia a dettar legge con una lingua incomprensibile. Si capisce bene invece il tono della sua voce. Voci staccate da corpi che danno ordini incomprensibili persino a sé stesse. Tanti i simboli, il piatto vuoto dei Mangiatori, il sangue che cola rosso e lacrimante, il corpo adagiato, molti i riferimenti alla storia dell’arte, all’iconografia sacra. Le immagini, a blocchi, per segmenti, per soste e poi per movimenti sono meravigliose, immobili. Castellucci sembra esser tornato a quel teatro che fonde arti visive, corpo, musica e luogo. In piena linea con il tema portante della Biennale di quest’anno, dove il teatro è corpo e il corpo è poesia. Possiamo aver visto questo o altro, esser stati spaventati o irritati, ma di sicuro questo è stato un accadimento fondamentale, che nella confusione della polvere intrisa di aria e nella poca luce ha aperto una porticina e fatto sentire quella voce dal fondo, che forse non abbiamo voglia di stare ad ascoltare, ma che il teatro… Torniamo a riva e mi piacerebbe dire che quel che abbiamo visto ci ha cambiati, ma la verità è che, scesi dalla barca, tutto questo sembra essere stato un lungo, intenso sogno.