Al Teatro alla Scala è in scena ‘Siegfried’, terzo capitolo della Tetralogia di Richard Wagner ‘Der Ring des Nibelungen’ (a Milano fino al 21 giugno)
‘Siegfried’ è generalmente ritenuto il più ostico dei quattro drammi musicali che compongono la Tetralogia wagneriana, almeno per il pubblico, forse perché qui Wagner ci trasporta dalla dimensione della mitologia (‘Das Rheingold’) e della tragedia (‘Die Walküre’) a quella della fiaba. La storia di Sigfrido nei primi due atti, tra draghi, uccellini, tesori nascosti e un nano antipatico che cerca di ucciderlo è probabilmente meno avvincente per il pubblico adulto cui è destinata, dei difficili rapporti fra le divinità del Walhalla o la struggente storia d’amore tra Siegmund e Sieglinde. Il dramma è comunque diviso in due parti: una prima parte, che comprende i primi due atti fiabeschi, è separata dalla seconda, cioè dal terzo atto, da ben diciassette anni di distanza, durante i quali Wagner compone ‘Tristan’ e ‘Meistersinger’, e la sua scrittura musicale si arricchisce di un nuovo, complesso e ricchissimo cromatismo. Il terzo atto è dedicato al fatidico incontro fra Siegfried e Brünnhilde sulla rocca dove lei giace addormentata in un magico sonno che solo il bacio dell’eroe senza macchia e senza paura potrà svegliare. Anzi, non senza paura, perché Sigfrido imparerà la paura proprio dall’incontro con l’ormai ex-valchiria dormiente e dall’attrazione erotica – fino allora a lui sconosciuta – che ne scaturirà. Poi, superate le rispettive paure (per lei in particolare la consapevolezza della perdita dello status divino), ecco il risveglio dell’amore e l’unione fra i due nel giubilo crescente del finale del terzo atto.
La saga wagneriana prosegue alla Scala nel segno visivo della regia di David Mc Vicar, iniziata con vistosi accenti fantasy e proseguita in tono più simbolico ed essenziale sul piano scenografico, qui inoltre caratterizzata da un lavoro straordinario sugli interpreti. ‘Siegfried’ contiene lunghi dialoghi a due personaggi, e questo lavoro è assolutamente necessario perché il dramma emerga in tutta la sua forza e teatralità. Il personaggio di Mime, il nibelungo fratello di Alberich cui è capitato di doversi occupare dell’educazione del piccolo Siegfried ora cresciuto abbastanza da volersi affrancare da lui e dal suo mondo, è quello che più si avvantaggia dell’approccio. Ironico, comico, grottesco, patetico, e perfino tenero, ma sempre umano, il Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, con il suo cestone di capelli rossi, è il capolavoro interpretativo di un cantante, attore e mimo eccellente, che catalizza l’attenzione del pubblico. Non meno interessante l’esito di un’attenta riflessione sul personaggio di Siegfried, anche alla luce delle caratteristiche vocali di Klaus Florian Vogt, che tenore eroico proprio non è.
Anche se la tradizione ci ha consegnato un Sigfrido eroe spavaldo e arrogante, che dispiega il suo vigore vocale nel forgiare la spada, esiste e coesiste in lui, nel libretto e nella musica di Richard Wagner, un altro Siegfried, un figlio che vuole sapere chi era sua madre, che si chiede quale fosse il suo aspetto, che riflette sulla sua morte e sospira e si dispera di non poterla vedere, e la invoca nel momento della paura, quando libera dalla corazza il corpo addormentato e carico di promesse di Brünnhilde. Un Sigfrido intimo, indifeso, disarmato, pensoso, addolorato, e disposto, come suo padre prima di lui, a rischiare tutto per amore (‘Così bevo la vita dalle più dolci labbra, dovessi anche perdermi e morirne…’), valorizzato dalla regia di Mc Vicar, che tende a ridimensionare il famigerato ingranaggio antisemita wagneriano ‘Siegfried ariano versus Mime ebreo’.
Le scene cupe, sui toni del grigio, dello stesso McVicar e di Hannah Postlethwaite, prediligono il gigantismo di teschi, teste e mani, con un bel gruppo scultoreo di figure umane che erompono da cortecce di alberi nel secondo atto. Camilla Nylund nei panni di Brünnhilde, avvolta in uno dei costumi senza tempo di Emma Kingsbury, asseconda le caratteristiche vocali di Vogt essendo anche lei interprete espressiva di stampo lirico, mentre Michael Volle riafferma il suo autorevole Wotan senza risparmiarsi vocalmente. Christa Mayer è un’Erda dolente e confusa, che sente perso il suo potere divinatorio e si abbandona a una rassegnata disperazione. L’islandese Olafur Sigurdarson è l’acclamato Alberich di Bayreuth, che Mc Vicar qui propone in abiti da re shakespeariano decaduto, con corona di traverso, trascinante un carrettino con i simboli di un’impossibile regalità. Deliziosa è Francesca Aspromonte nel ruolo dell’uccellino (un po’ penalizzata dal costume triste e dall’eccessiva presenza di finti uccellini intorno a lei) mentre Ain Anger è un Fafner vocalmente stupendo.
La regina della serata è Simone Young che dirige l’orchestra del Teatro alla Scala con ormai salda padronanza, alternandosi con Alexander Soddy nelle ultime repliche. Meravigliosa nel celebrare i momenti di potenza come quelli di levità, indimenticabile il suo tocco scintillante nel risveglio di Brünnhilde, accompagnato da soli violini. C’è una specie di filo rosso che accomuna sul piano musicale e vocale direttori e interpreti in questa produzione, e questo filo potremmo chiamarlo la ‘visione di Bayreuth’: Soddy è stato assistente musicale di Young, che è stata a sua volta assistente di Barenboim. ‘Siegfried’ è in scena al Teatro alla Scala fino al 21 giugno.
Brescia e Amisano