Claudia Caldarano e Sandro Pivotti portano ad Arzo un teatro che fa i conti con l’ansia collettiva
“Cos’è la libertà?” hanno chiesto una volta a Nina Simone, e lei rispose: “No fear”. Ma nello spettacolo di Claudia Caldarano la paura è l’aria che respiriamo, l’ossigeno che mantiene in vita l’ansia. La protagonista la mastica, la inala, e noi insieme a lei. Abbiamo paura di tutto, compresa la paura stessa. Forse la paralisi non è più un sintomo, ma l’unico vero talento collettivo della nostra epoca.
D’altronde ‘Siamo tutti in pericolo’ lo dichiara già dal titolo: allarmismo e angoscia saranno protagonisti per i prossimi 75 minuti. Non sorprende, quindi, che molti si siano riconosciuti in quel “tutti” e che la Corte Bonaga, venerdì scorso durante il Festival internazionale di narrazione di Arzo, abbia accolto anche chi, pur di esserci, si è sistemato sul prato.
Quel “tutti” continua in scena nella divisa dell’attrice: jeans e maglietta bianca, l’uniforme più democratica che ci sia. Potrebbe essere lei, potremmo essere noi, a farneticare sul palco, circondati da pile di libri che consultiamo con la stessa fiducia con cui si legge il bugiardino di un farmaco.
A terra, intanto, c’è Sandro Pivotti: il suo contrappeso. Sta sdraiato con il collo piegato in modo insopportabile da guardare, incarnando insieme l’ombra di Pasolini e il cadavere del padre dell’attrice. È un doppio carico simbolico che gli procura il torcicollo ma anche un ruolo preciso: l’amico fedele, quello che da anni assiste alle ossessioni dell’altra con la rassegnazione di chi sa che non potrà salvarla.
Caldarano, a suo dire, è un’ansiosa strutturale: un carlino umano, fisicamente inadatta a respirare. Le notizie la bombardano, la realtà la congela, eppure continua a interrogarsi come se la definizione giusta potesse fungerle da inalatore.
La scelta del titolo ispirato all’ultima intervista di Pier Paolo Pasolini non è un feticcio culturale, ma uno strumento diagnostico: una risonanza magnetica che mette in evidenza la stanchezza cronica e l’ostinata incapacità di agire che oggi chiamiamo “normalità”. Eppure, come ogni esame clinico che si rispetti, lo spettacolo non offre grandi soluzioni, e meno male: il suo centro è proprio il tentativo fallimentare, e per questo umano, di dare un nome, e una forma, al caos. Guerre, crisi ambientali, alienazione tecnologica, ansia generalizzata si accumulano fino a farci vivere la sindrome della crisi “di essere sempre in crisi”.
Cosa resta da fare, allora? Continuare a percorrere la giornata ordinaria, fingendo che basti? Nemmeno la protagonista, che danza tra il pubblico per provare a vivere senza oppressioni, sembra del tutto convinta. Ed è in questa oscillazione che si muovono i due amici, tra personale e collettivo, tra confessione e analisi.
Non è un’autobiografia teatrale quella che mettono in scena, semmai un “noi” allargato, l’indagine di un’epoca che ha fatto del “non posso farci nulla” la più comoda delle posizioni etiche.
‘Siamo tutti in pericolo’ lascia addosso la soddisfazione che Livorno abbia esportato all’estero altro oltre Paolo Ruffini, ma anche l’idea che l’unico antidoto all’immobilità sia ammettere la propria paura e rispondere al solito “Come va?” con la sola verità praticabile, con cui si chiude lo spettacolo: “Bene, a tratti”.
Caldarano lo fa dietro una trincea di libri, tentando di difendersi dal reale, mentre il pensiero della morte la paralizza e, insieme, la costringe a continuare.