Riprese in bianco nero stupendamente conservate e convertite in 4K: sono la vera ragion d’essere del documentario di Robert Gordon
Chissà cos’è che risuona così profondamente, nell’attualità del 2025, nella leggendaria ma anche ampiamente romanzata vicenda dell’electric set di Bob Dylan al Newport Folk Festival del 1965. Sessant’anni fa tondi tondi il Menestrello, bello e spietato come un giovane angelo, sconvolgeva il suo pubblico adorante, devoto a un’autenticità sentimentale o politica ma in ogni caso rigorosamente acustica, con una versione elettrica di ‘Maggie’s Farm’ che davvero ebbe l’effetto di una scarica ad alto voltaggio (Todd Haynes, nel memorabile e prismatico biopic ‘Io non sono qui’, rappresentò la scena come una scarica di mitra dal palco sugli astanti).
La parabola è canonica del dylanismo e archetipica in assoluto, ha qualcosa di cristologico, Rimbaud tra i parnassiani, il genio che distrugge la scena che lo adora. Il profeta che come prova suprema di integrità deve farsi traditore. Su questo era il biopic patinato di James Mangold con Timothée Chalamet ‘A Complete Unknown’, uscito qualche mese fa, su questo è il documentario ‘Newport & the Great Folk Dream’ di Robert Gordon, presentato ieri a Venezia 82.
“A Chalamet e Mangold dobbiamo solo dire grazie”, spiega Gordon in sala stampa, sorriso da un orecchio all’altro che conferma che non sta bluffando. “Questo progetto lo abbiamo iniziato sette anni fa, naturalmente non sapevamo nulla di ‘A Complete Unknown’, un grande successo internazionale che ha fatto conoscere alla generazione dei ventenni quell’epoca e quei personaggi, portando oggi a noi un interesse nel quale non avremmo osato sperare”.
‘Newport & the Great Folk Dream’ ha una genesi antica, e a suo modo romantica. Nasce da un altro documentario di culto, ‘Festival’, con cui il regista Murray Lerner nel 1967 raccontò le storiche edizioni di Newport, il più autorevole e militante festival di musica folk d’america, tra il ‘63 e il ‘66. Lerner era un perfezionista. Per i 97 minuti effettivamente montati, aveva raccolto oltre 100 ore di girato del festival, i cui negativi nei decenni successivi custodì gelosamente a casa sua. “Io l’ho conosciuto negli anni Novanta”, racconta Joe Lauro, produttore e primo ideatore di questo film, “mi diceva che di quel girato avrebbe fatto un altro film, io mi offrivo di aiutarlo, ma non si decideva mai. Infine un giorno cominciammo a parlarne seriamente, ma Murray aveva 92 anni. Nel 2017 morì, io comprai l’archivio e contattai Robert Gordon per la regia”.
La meraviglia del materiale di repertorio, riprese in bianco nero stupendamente conservate e convertite in 4K, è la vera ragion d’essere di ‘Newport & the Great Folk Dream’. Il filo narrativo è esile, la parabola d’apostata di Dylan un pretesto, il punto sono quasi due ore di musica eccellente ma talmente datata, talmente inattuale coi suoni ruvidi e dolci degli strumenti in presa diretta e con i testi semplici e militanti sul sindacato o un delitto razzista che a un certo punto non sai più se vengano dal passato o dal futuro, da un’epoca più ingenua o più civilizzata della nostra.
“Adoriamo Bob Dylan”, spiega ancora Gordon, “ma a un certo livello per noi rappresentava un problema. Film e documentari su di lui ce ne sono già un’infinità, c’era il rischio che la sua figura dominasse anche qui, quando noi volevamo invece raccontare tutto un mondo, e tanti altri artisti meravigliosi, alcuni dei quali ingiustamente dimenticati”. Odetta, Joan Baez, Johnny Cash, Josè Feliciano, Peter Paul & Mary, ma anche straordinari e obliati artisti jazz americani, band della Louisiana che cantano in un ipnotico francese cajun.
Difficile capire, dicevamo, perché queste vicende di sessant’anni fa sembrino riguardarci così da vicino. Difficile dire se ci identifichiamo nel genio eclettico e momentaneamente incompreso di Dylan o nel dolce, allampanato e tradito Pete Seeger, il folksinger-attivista che aveva creato Newport e in buona misura anche Dylan. Quando partirono le chitarre di ‘Maggie’s Farm’ gridò, pare: “santo cielo, qualcuno può abbassare questo rumore?”. Solo per sentirsi rispondere un: “per questo è di gran lunga troppo tardi, Pete”, che certo non si riferiva solo all’acustica della serata.