Con lui se ne va non solo un artista chiave del cinema statunitense, ma anche le ultimissime vestigia dell’illusione americana che abbiamo sempre amato
“Gli eroi sono tutti giovani e belli” cantava Francesco Guccini. E, nel caso di Robert Redford, raramente nel cinema statunitense questa affermazione, poetica e mitica, si è incarnata con maggior verità – addirittura icastica. Rispetto a Paul Newman, che ha portato con sé sempre l’ombra delle dissonanze della modernità, Redford possedeva un’aura edenicamente classica; apollinea. Il classicismo fosco e corrusco di un Clint Eastwood gli era estraneo, nonostante abbia anche lui interpretato western diventati epocali. Il punto più lontano dove si è spinto Redford, è stato con Corvo rosso non avrai il mio scalpo, diretto dall’amico fidato Sydney Pollack, un gigante del cinema troppo poco amato e ricordato, e non è un caso che il possente John Milius, lo sceneggiatore del film e futuro regista di Conan il barbaro, rimproverava all’attore di essere troppo “gentile”, “poco selvaggio”. In sceneggiatura Jeremiah mangiava il fegato dei nemici uccisi, ma né Redford né Pollack pensavano che fosse necessario per evidenziare il punto di congiunzione fra i nativi e primi “americani”.
Redford, venuto a mancare a 89 anni, attraversa una parte decisiva di ciò che oggi identifichiamo come cinema nordamericano. Un vero (anti)eroe fitzgeraldiano (e non solo perché ha interpretato Gatsby con malinconia infinita), che è stato identificato con il sogno di un’America colpita al cuore dal Vietnam e dalle uccisioni di JFK, Martin Luther King e Robert Kennedy. Già, come eravamo.
Californiano come solo certe canzoni di Joni Mitchell sanno esserlo, portava negli occhi quella nobiltà schiettamente statunitense, da new deal rooseveltiano, quel portamento e sentire incomprensibile (o quasi) per gli europei: un cosmopolitismo ancorato nelle piccole cose della provincia statunitense (e non è un caso che quando si ritira dalla militanza per il Partito Democratico aumenta il suo impegno a favore delle politiche locali).
A scorrere la sua filmografia si nota una progressione precisa sin dall’eccellente Lo strano mondo di Daisy Clover, diretto da Robert Mulligan, un regista oggi quasi completamente scomparso dalle mappe della cinefilia. Sarebbe facile indugiare sui titoli inevitabili e (giustamente!) amatissimi come La caccia, Butch Cassidy, Ucciderò Willie Kid (di Abraham Polonsky, finito nella morsa della lista nera di McCarthy), La stangata. O ancora: I tre giorni del condor o Tutti gli uomini del Presidente, i film faro (con La conversazione di F.F. Coppola) della paranoia post Watergate. Ma andrebbe ricordata anche la collaborazione con Michael Ritchie (il regista di Arma da taglio) con il quale interpreta Gli spericolati e, soprattutto, Il candidato, film che rielabora lo stile da cinema verità di Albert e David Maysles.
La qualità del lavoro di Redford risiede in quel miracolo, squisitamente hollywoodiano, di una presenza inevitabile ma “invisibile”. Nessun manierismo da metodo, ma una presenza forte e discreta come prima di lui solo Cary Grant poteva vantare. Eppure, come dimenticare i suoi occhi che adorano con infinito amore e tenerezza (e pudore) Barbra Streisand? Come trattenere le lacrime? E, soprattutto, quale segreto possedeva (e possiede) Robert Redford per fare così tanto con così “poco”? Questo classicismo lo avrebbe messo al servizio dei film che dopo Gente comune, premiato con due Oscar – regia e attore non protagonista a Timothy Hutton – avrebbe diretto (ir)regolarmente.
All’epoca la critica su alcuni dei film di Redford si distraeva, l’accusa, in fondo, era che fossero un po’ soporiferi, manierati (Leoni per gli agnelli – con un ottimo Cruise – l’eccezione) mentre invece lui non faceva altro che portare avanti la grande lezione di Pollack. E, invece, quei film lì erano gli ultimi bagliori di un cinema statunitense che non ci sarà più e che all’epoca invece si andavano ancora a vedere al cinema. Poco alla volta la sua indefinibile bellezza, ruvida come un jeans ma elegante almeno quanto il cappotto di cammello di Alain Delon in L’ultima notte di quiete di Valerio Zurlini, è diventata il segno del tempo che passava. Un tempo celebrato nel magnifico Il migliore di Barry Levinson, con Il cavaliere elettrico (l’anti western più “bello” di sempre), nel troppo trascurato La mia Africa, film di Pollack degno di Henry King o ancora nello struggente – e profondamente politico – Havana, sempre dell’amico Sydney, nel quale omaggia Casablanca di Michael Curtiz e incrocia la strada di un Tomas Milian tornato a casa (interpretando la sua nemesi paterna).
Non si è mai fermato Redford, e aveva un fiuto infallibile per i registi: si pensi solo a I signori della truffa di Phil Alden Robinson, un “caper movie” impeccabile, e siamo già nel 1992. E poi come dimenticare il Sundance, il suo festival, che crea con Pollack, dal quale lancia nomi chiave del cinema statunitense contemporaneo (i fratelli Coen, Tarantino, Kevin Smith, Damien Chazelle, Richard Linklater, per citare solo i primi nomi che vengono alla mente)? Senza contare il Sundance Lab che ha attivamente sostenuto cineasti provenienti da ogni parte del mondo, diventando un modello per iniziative che dopo si sono moltiplicate ovunque (e qui l’elenco dei nomi scoperti e lanciati rischia di diventare infinito). Nel 2019 Robert Redford è invitato al Festival di Marrakech: camicia di lino rosso, jeans sdruciti. Raramente una leggenda è apparsa in maniera meno… leggendaria e con più carisma ineffabile. L’umiltà delle risposte alle domande del pubblico, il rendere sempre ai registi il merito della qualità del suo lavoro, la fiducia nel futuro e nel cinema.
Robert Redford ha personificato un modo di essere di “americano” oggi assolutamente incomprensibile, o comunque lontano. Colto, classico, aperto, visionario. Lui che non perdeva la sua umanità nemmeno in film carcerari crudi come Brubaker di Stuart Rosenberg (un altro grande regista del calibro di Mulligan e del primo Ritchie). Con Robert Redford se ne va non solo un artista chiave del cinema statunitense, di quelli che fanno la differenza, ma anche le ultimissime vestigia dell’illusione americana che abbiamo sempre amato con trasporto e commozione. Robert Redford era davvero il sogno di un’America possibile, genuinamente inclusiva, la terra delle opportunità e della giustizia per tutti. Lui, per questo sogno, ci ha messo la faccia e ha sempre lavorato. Come non pensare, dunque, a Jack Kerouac e ai suoi versi radiosi, tentando di conservare per sempre nel cuore e nella pelle lo sguardo di mirabile azzurro di Robert Redford? “Che riposo glorioso sapere/Qual età dell’Oro/di Oscurità Silente/nel mio Cuore Felice/mentre giaccio contemplando/il fatto che dovrò morire/in ogni caso, non importa di che razza/di che grazia”.
Keystone
Al ‘suo’ Sundance Festival