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La nuova economia di guerra

Al centro John Maynard Keynes
(Keystone)

Come ricorda Sergio Rossi in una sua intervista rilasciata a Rsi News il 2 aprile 2025, da diversi decenni la spesa pubblica militare costituisce una componente strutturale del bilancio del governo federale degli Stati Uniti, contribuendo in modo significativo al disavanzo pubblico. Le guerre in Iraq e Afghanistan, i conflitti attuali in Ucraina e Medio Oriente, e lo sviluppo di tecnologie nucleari a fini bellici testimoniano il ruolo centrale che la politica militare ha assunto da tempo nell’economia americana. Il settore militare non solo assorbe risorse pubbliche considerevoli, ma influenza anche le dinamiche macroeconomiche globali, se solo si ricorda che qualcosa come il 55% delle importazioni di armi da parte dei Paesi europei tra il 2019 e il 2023 proviene dagli Stati Uniti. Un 55% che va in qualche modo finanziato come il restante 45%, peraltro.

John Maynard Keynes nella sua opera ‘La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta’ (1936) aveva già identificato il ruolo della spesa pubblica nel sostenere la domanda aggregata e, di conseguenza, l’occupazione e la crescita economica. Durante la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti applicarono i principi keynesiani, utilizzando la spesa bellica come leva per uscire dalla Grande Depressione. Tuttavia Keynes affrontò in modo più specifico il tema della spesa militare e del suo finanziamento in ‘How to Pay for the War’ (1940). Visti gli effetti inflazionistici dello sforzo bellico (maggiore domanda aggregata senza il corrispettivo in termini di beni di consumo, se non quelli bellici che si consumano distruggendosi), Keynes sottolineò la necessità di misure fiscali adeguate, come imposte progressive e risparmio forzato, al fine di permettere un rilancio della domanda aggregata, una sorta di consumo differito dopo la fine del conflitto. L’idea di fondo era di varare misure sociali e redistributive a favore della popolazione per ripagarla delle privazioni e dei sacrifici sostenuti durante la guerra. Fu questo il senso profondo dello stato sociale post-bellico. Ben diverso l’esito della guerra alla pandemia, dalla quale aspettiamo ancora di essere sdebitati. Anzi, la spesa sanitaria a carico dei cittadini è in costante aumento come pure quella delle imprese chiamate a ripagare i debiti contratti durante la crisi pandemica.

La logica del conflitto permanente

Se da un lato la spesa militare genera occupazione e sviluppo tecnologico, dall’altro distorce l’allocazione delle risorse, privilegiando settori meno produttivi rispetto a investimenti in infrastrutture civili, sanità e istruzione. Keynes stesso avrebbe probabilmente criticato questa strategia, in quanto oggi la spesa militare, secondo le evidenze empiriche, genera effetti inferiori al suo ammontare. Secondo Goldman Sachs un dollaro speso per la produzione bellica genera solo 50 centesimi, oltretutto a patto che gradualmente la produzione bellica aumenti. In altri termini, mentre il keynesismo classico proponeva una spesa pubblica anticiclica per stimolare la crescita in periodi di recessione, l’attuale economia di guerra sembra vincolata a una logica di crescita continua dipendente dal conflitto permanente. A differenza del passato, quando la ricostruzione postbellica generava un ritorno economico tangibile, oggi il complesso militare-industriale si autoalimenta, promuovendo politiche di (in)sicurezza che giustificano un’espansione continua della spesa bellica.

In questo contesto si inserisce anche la politica commerciale inaugurata dall’amministrazione Trump, con l’introduzione di dazi doganali su larga scala. Oltre a rientrare in una strategia di rilancio del Made in Usa, questi dazi alimentano tensioni inflazionistiche e dinamiche protezionistiche estremamente pericolose. Sono anche chiamati, almeno in parte, a compensare l’elevato disavanzo federale generato dalla crescita della spesa militare e dagli sgravi fiscali a favore dei ceti più abbienti. La riscossione dei dazi, in questo senso, rappresenta un’entrata fiscale alternativa in un quadro di riduzione strutturale delle imposte. Sul calcolo di questa misura tariffaria si può solo stendere un velo di pietoso silenzio.

Una dura prova per la neutralità elvetica

La Svizzera non è affatto estranea a queste dinamiche, come mostrano gli avvicendamenti ai vertici dell’esercito, della Ruag e del Dipartimento della difesa. I segnali sono chiari: allentamento delle restrizioni alle esportazioni, progressivo avvicinamento alla Nato e, ovviamente, aumento non indifferente della spesa militare. Un’ulteriore dura prova della neutralità elvetica.

C’è da chiedersi come questa svolta bellicista si riverbererà sulla nostra economia cantonale, la cui solidità è direttamente proporzionale alla crescita e all’orientamento dei mercati d’esportazione. Una cosa è chiara: senza conoscere quali sono i margini e gli obiettivi di una politica industriale locale, difficilmente si potrà perseguire una politica di allocazione delle risorse che tenga conto dei bisogni in campo sanitario, sociale e formativo. Senza una conoscenza e una consapevolezza della società che vogliamo, e per la quale siamo pronti a mobilitarci, non ci rimane che restare al traino della storia e della sua negazione.