Le celebrazioni per gli ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale in Europa (maggio 1945) rischiano di svolgersi in un clima teso e astioso tra le due sponde dell’Atlantico. L’offensiva degli ormai ex amici americani ha scompaginato i ranghi dell’Unione europea, obbligandola da un lato a rivedere le coordinate delle tradizionali alleanze e dall’altro a interrogarsi sulla sua missione, anche militare, all’interno del riassetto geopolitico in corso.
Nel corso delle ultime settimane, nel parlamento italiano, governo e opposizione si sono azzuffati intorno al significato e alla portata di uno dei documenti fondanti dell’Ue, il Manifesto di Ventotene, dal nome dell’isoletta tirrenica in cui il regime fascista aveva recluso, tra numerosi altri, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi. Si era nell’estate del 1941, in una fase in cui il nazifascismo avanzava come un rullo compressore, sia a ovest (resa della Francia), sia a est, con l’invasione dell’Unione Sovietica (operazione Barbarossa). Anni e mesi in cui non era facile prefigurare un avvenire al continente finito sotto il tallone delle dittature, e men che meno immaginare ‘un’Europa libera e unita’. Eppure questi tre amici antifascisti non cedettero allo scoramento, nella convinzione che i popoli avrebbero prima o poi ritrovato le energie per invertire il corso degli eventi. In questo erano stati buoni profeti.
Durante il dibattito è pure emersa la tesi che disconosce al Manifesto ogni onore di primogenitura nell’abbozzo del progetto europeista. In altre parole, la Comunità che ha preso forma negli anni Cinquanta del secolo scorso non si è ispirata alle indicazioni dei tre confinati, ma ha imboccato una via propria, fondata non sul federalismo ma sul funzionalismo dei trattati, prevalentemente di tipo economico-monetario. Il che ha condotto alcuni storici a relegare in soffitta il Manifesto come una pignatta bucata. Emblematica la posizione di Ernesto Galli della Loggia: in un testo del 2014 già anticipava i giudizi che poi sono stati espressi nella Camera italiana dei deputati: “Un Manifesto inattuale”, osservava; coloro che lo hanno letto veramente “sono in realtà pochissimi… il Manifesto si diffonde a lungo sul nuovo assetto socialista da stabilire sul continente, sì che si direbbe che sia questo, più che il progetto federalista in quanto tale, a costituire il suo vero nucleo politico-programmatico… Sì, il lettore ha capito bene: quello che il Manifesto propone è in sostanza una rivoluzione dall’alto di tipo giacobino-leninista che non stia a curarsi troppo di che cosa pensa il popolo” (‘Europa perduta?’, edizioni il Mulino).
In realtà il Manifesto si compone di più capitoli (quattro per la precisione) e non di uno solo, il più riprodotto e citato. L’edizione che abbiamo sott’occhio, introdotta da un pensatore non certamente fazioso come Norberto Bobbio, li riporta sotto i seguenti titoli: prefazione a “Problemi della Federazione europea”, “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”, “Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche”, “Politica marxista e politica federalista”. Sono pagine di un lavoro in costante evoluzione e revisione, e che proseguirà anche negli anni successivi, quando Rosselli e Rossi si ritroveranno in esilio in Svizzera dopo l’8 settembre del 1943 (Colorni, rimasto a Roma, sarebbe caduto in un agguato nel maggio del 1944). E sarà proprio a Lugano che Ernesto Rossi darà alle stampe, presso le Nuove edizioni di Capolago e sotto lo pseudonimo di Storeno, un altro libretto prezioso: Gli Stati Uniti d’Europa.
Siamo dunque in presenza di una riflessione che dopo il primo abbozzo del 1941 inizia a diramarsi, a frondeggiare e ad accogliere nel tronco principale sempre nuovi elementi, politici ed economici, nazionali e internazionali. D’altronde la stessa vita dell’esponente più longevo e attivo, Altiero Spinelli, testimonia un’operosità mai del tutta paga, sempre proiettata verso nuovi traguardi.
Certamente alcuni passaggi del Manifesto originario ci paiono oggi lontani o caduchi, frutto di contingenze particolari, tra le quali va ricordato, dettaglio non di poco conto, il luogo in cui il testo fu concepito, una “ciabatta” di terra in mare, “d’inverno spazzata dai venti, d’agosto catino infuocato”, come scrisse Giuseppe Fiori ripercorrendo la vita di Ernesto Rossi. E tuttavia il Manifesto resta una pietra angolare nella volta dell’europeismo moderno. Demolirlo attraverso volpine estrapolazioni – come quella riguardante la proprietà (dei mezzi di produzione, va precisato) – non ha molto senso. Ma se proprio vogliamo attenerci al testo, ecco un passaggio che merita di figurare nelle bacheche di tutti i parlamenti: “… occorre sin d’ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far nascere il nuovo organismo che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa: per costituire un saldo Stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali; spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari; abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli Stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli”.
Il Manifesto di Ventotene: un seme, un alito di libertà, una luce di speranza nel buio delle dittature, un’utopia in cammino.