Soltanto un semplice preavviso che ti dice “sta arrivando”. Poi, la porta che lentamente si apre, allunga lo scorcio quel lungo corridoio al cui termine inizia a profilarsi la sua sagoma. La tunica bianca, il bastone a reggerne il passo malfermo ma soprattutto la fotografia via via sempre più nitida di un uomo che arriva tutto solo all’incontro. E che inizia a sorriderti già in lontananza come fosse del tutto naturale ritrovarsi lì, in una stanza di Santa Marta, in maniera quasi domestica. Ecco, se c’è un’immagine che devo scegliere per cercare di assemblare i ricordi delle volte in cui sono stato ricevuto da papa Francesco non posso che partire da qui. Semplicemente dall’inizio, perché in quell’inizio c’è già tutta l’irregolarità straordinaria con cui lui da sempre ha voluto scardinare tutti i protocolli che irregimentano ogni appuntamento all’interno delle mura del Vaticano. Nessun ufficio stampa, nessun portavoce, nessun filtro, solo un desiderio spontaneo di chiacchierare con chi per lavoro aveva dovuto seguire le vicende del suo pontificato, soprattutto negli anni complessi della pandemia, dove la presenza di Bergoglio si era stagliata in tutta la sua grandezza nel momento in cui tutte le piazze, compresa la sua, erano state costrette a rimanere vuote.
E così, fin dal primo faccia a faccia, a stupirti e spiazzarti è stata proprio la capriola con cui le cose che fino a qualche istante prima sembravano lontanissime, tutto d’un colpo sono diventate vicine. Con un semplice gesto, le parole gentili stile nonno con cui ti chiedeva se avevi bevuto o mangiato qualcosa mentre eri rimasto in attesa. Quel quasi-niente che però riesce a capottare ogni distanza e a trasformare l’inaccessibile in qualcosa di umano e persino di familiare. Del resto, se lo aveva fatto salutando con un semplice “buonasera” addirittura durante la sua elezione al soglio pontificio la sera del 13 marzo 2013, figurarsi se – con le debite proporzioni – non si poteva comportare così anche nel piccolo delle conservazioni più quotidiane che avevano fatto da scivolo alle due interviste speciali rilasciate alla Rsi. “Come potrei dire di no, agli svizzeri?” aveva detto non senza ironia a Paolo Rodari e a me nel momento in cui ci aveva risposto che sì, lui era disponibile, bastava solo trovare la data.
Un sì che era arrivato alla fine di un colloquio a ruota libera dove si era parlato di tutto. Spaziando dalla sua ammirazione per il vecchio cinema neorealista italiano che gli ricordava la Buenos Aires della sua infanzia, al suo passato da insegnante di letteratura, fino ad arrivare al calcio e a quel carattere argentino che ha sempre contrassegnato vittorie e sconfitte della sua Nazionale. “Siamo una terra di immigrazione dove tutto si mescola, ma dove ogni tanto abbiamo un problema di unità. Anche nel calcio, come nella finale ai Mondiali contro la Francia: prima vinciamo ma non appena diventiamo presuntuosi, poi rischiamo di perdere”. Parole che diceva appoggiandosi spesso a quel sorriso scherzoso un po’ sospirato con cui sembrava sempre limare la perentorietà delle sue affermazioni. Quasi un modo per potenziare il mix di gentilezza e fermezza che invece ritrovavi sulle sue labbra e nel suo sguardo diretto, nel momento in cui gli argomenti si facevano più duri, spigolosi o allarmati. Da questo punto di vista, mai un passo indietro. Per dire, nella prima intervista Rsi fatta da Rodari per i dieci anni del suo pontificato, aveva letto le tracce degli argomenti che volevamo affrontare e lui si era concesso per un’ora, senza mai indietreggiare di fronte a tutti i temi-cardine e le controversie che avevano animato la lunga stagione dei due Papi, terminata solo qualche settimana prima dell’incontro con la morte di Benedetto XVI. Dall’opposizione interna al Clero ai problemi di pedofilia all’interno della Chiesa, dal rapporto con l’omosessualità (“chi sono io per giudicare?”) fino ai tanti proclami contro la guerra destinati a cadere nel vuoto, ma contro cui non poteva abbassare la guardia. “Io non faccio politica” ci ha detto più volte, “la politica la fa la segreteria dello Stato, io sono solo un pastore ma non rinuncio mai a dire le cose quando arrivano qui i potenti della Terra. Il problema è che molto spesso loro ti dicono di sì, poi però continuano a fare ciò che hanno sempre fatto”.
E quel coraggio con cui si era speso sul tema della pace non lo aveva semplicemente relegato all’interno di formule retoriche passe-partout, ma anzi si era spinto più in là, affrontando ancora una volta, in piena solitudine, il pantano politico e immobilista in cui sembravano sprofondati i conflitti più recenti in Ucraina e a Gaza. E da una prospettiva simile, la seconda intervista che ci ha concesso, per la trasmissione Cliché, quella della famosa “bandiera bianca” che tante polemiche ha sollevato a livello mondiale, ne è stata una riprova. Un’intervista che aveva trovato l’accordo di papa Bergoglio proprio in virtù delle chiacchierate libere che avevamo avuto in precedenza. Anzi, a dire il vero, l’incipit inconsapevole l’aveva dato lui stesso, quando ci aveva raccontato quanto era impegnativo indossare quell’abito bianco che in pubblico doveva fungere da modello, perché di fronte al candore anche una singola macchiolina nera poteva assumere una rilevanza ancor maggiore. Da lì, l’idea di compiere una perlustrazione con un compagno di viaggio così importante sulle tante declinazioni che il colore bianco portava con sé nel nostro immaginario, aveva fatto il resto. Il bianco come il colore della purezza. Il bianco come colore della famosa colomba della pace che arriva dopo il diluvio universale. Ma anche il bianco come il colore di quella bandiera che il Papa aveva voluto abbracciare nel nome della massima negoziazione per arrivare alla fine di ogni conflitto. D’altra parte, ne sono convinto, quello che disse allora non si discostava di tanto da quanto aveva sempre sostenuto. Il suo era un discorso ideale verso una pace che si mettesse ancora una volta a protezione degli ultimi, senza preoccuparsi di creare vincitori o perdenti.
L’unica differenza, forse, è stata proprio nella potenza del simbolo, una “bandiera bianca” che inevitabilmente riassumeva in sé molti più sensi e molte più interpretazioni, a partire da quella di una resa incondizionata e destinata a creare una finta-pace secondo la legge del più forte, pensiero estraneo al sentimento del Papa ma che la polemica infuocata del momento gli aveva attribuito. Quelli sono stati, verrebbe da dire, gli effetti collaterali di una presa di posizione che molto probabilmente voleva smuovere le acque, anche a costo di qualche fraintendimento. Perché se è vero che nel giro di pochi giorni sull’intervista sono fioccate le reazioni a tornado di gente come Zelensky, Stoltenberg, Biden, Macron, Scholz, è anche vero che nel discorso pubblico nessuno ha più potuto trascurare quel suo appello alla pace, partito da un angolo di una chiacchierata attorno a un colore. E forse anche noi, nel nostro piccolo, se mai ce ne fosse stato bisogno, abbiamo contribuito a portare una testimonianza in più nei confronti dell’irregolarità che ha fatto di papa Francesco un pontefice la cui grandezza è sempre stata fuori-norma, da uno che arriva dalla fine del mondo. Lui sì, il Papa delle prime volte. Il primo a prendersi il nome Francesco nella storia, il primo argentino, il primo gesuita, ma pronto fin da subito a definirsi il Papa degli ultimi.