Non è edificante vedere che la curiosità di conoscere chi siamo e cosa facciamo lascia il posto alla girandola dei bisogni fisici, che la contingenza postmoderna dei consumi alimenta e neutralizza. Intorno alla preistoria le ipotesi sono vaghe, ma ci presentano l’Homo sapiens vincente sulle altre specie umane non senza violenza. La storia tramandata è invece una storia interminabile di conflitti. Oggi non è cambiato molto da ieri, ma ci si interroga sui fini dell’umanità intera. Lo storico Yuval Noah Harari parla della irrilevanza in gran parte della gente verso il potere che concentra produzione, finanza e comunicazione; altri parlano di inefficacia delle procedure democratiche; altri di impotenza di chi ha un livello di conoscenze inferiore… e le tesi non si contano. La condizione odierna dei più civilizzati è che la civilizzazione ha fuso spazio e tempo, ha ridotto il tempo futuro al presente immediato (nunc) che fa accadere gli eventi nel luogo in cui si è, che non è solo il proprio locale (hic) bensì quello generalizzato comprendente il mondo. Qui e adesso (hic et nunc). La spazializzazione globale dei comportamenti coincide con la temporalizzazione locale degli eventi.
L’Illuminismo aveva nello spirito un forte senso di emancipazione, che l’Occidente pensa ancora di affermare, volendo essere – come riflette Fabio Merlini – “quel presente che pretende di portare in sé i principi di ogni emancipazione possibile: il presente ‘compiuto’ delle attuali ideologie liberal-capitalistiche”. Ma lo stesso filosofo scrive che “siamo orfani di qualsiasi tensione emancipatrice, fino a fare del tempo umano la ripetizione vuota di un presente animato da innovazioni in molti casi incapaci di aprire lo sguardo sul futuro”.
Resiste forse un anelito collettivo, nel senso di avere una sociogenesi comune, più un’intenzionalità condivisa da una parte importante della moltitudine, più un confronto pubblico fra soggetti. Uno dei disagi non indifferenti delle nostre società è la marginalizzazione individuale di un potenziale politico inespresso, al quale fa riscontro la disaffezione dalla politica praticata o il rifiuto dalle procedure. Alle lamentele sociali e alle rivolte popolari rispondono le prediche che esortano a partecipare alla politica corrente, oltre alle sicumere dei legalisti, per i quali è nella legalità costituzionale che si ha la legittimità democratica: non esiste alcuna legittimità democratica al di fuori di tale legalità, cioè è legittimo solo ciò che è conforme all’ordinamento giuridico frutto della volontà popolare espressa nella Costituzione. Senonché di fatto l’ingiustizia sociale è esterna all’ordine giuridico, come anche il potenziale politico che non familiarizza con le procedure della democrazia istituita. Tanto che un secolo fa perfino il teorico del diritto Hans Kelsen aveva scritto sulla rappresentanza di “crassa finzione”, essendo errato pensare che il parlamento nel suo complesso “sia per sua stessa natura il rappresentante del popolo”.