Da secoli il rapporto tra intellettuali e potere oscilla tra complicità e rottura, lusinghe e rifiuti, intimidazioni e dissenso. Da oltre Atlantico giungono ora notizie che non possono non inquietare, ossia il tentativo di incavezzare gli atenei tramite la sospensione dei contributi finanziari. Sono metodi di ricatto che pensavamo fossero estranei alla tradizione liberale degli Stati Uniti, e invece…
La vicenda, fatta la dovuta tara, ci riporta alla mente un episodio che cent’anni or sono, tra l’aprile e il maggio del 1925, scosse il mondo accademico, e non solo. Prese l’iniziativa il filosofo siciliano Giovanni Gentile, che, in coda al Congresso per la cultura fascista tenutosi a Bologna alla fine di marzo, si assunse il compito di redigere un documento avente per scopo di far conoscere innanzitutto all’estero quali fossero natura e obiettivi di un movimento che esibiva “l’orgoglio di aver salvato la civiltà dell’Europa”. Vedeva così la luce il ‘Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le Nazioni’, in cui l’estensore esaltava da un lato l’impresa di Benito Mussolini e dall’altro il valore morale del regime, incarnazione vivente e combattente dell’“antico spirito italiano”. Il testo celebrava inoltre il carattere “religioso” del fascismo, la vita e la grandezza della patria, “fede energica, violenta, non disposta a nulla rispettare che opponesse alla vita, alla grandezza della Patria”. Di fronte ai guasti provocati dalla vecchia e decrepita politica “demosocialista” si era reso necessario sospendere le libertà costituzionali per fondare un ordine nuovo, argine “alle forze disgregatrici antinazionali” e propulsore di “fatti audaci di alto contenuto morale”. Già in precedenza Gentile si era proposto di illustrare le caratteristiche del regime, in una conferenza intitolata ‘Che cosa è il fascismo’ (8 marzo 1925), ove aveva insistito sullo Stato etico e sull’identità tra sfera privata e sfera pubblica: “Signori – esclamò in quell’occasione – il fascismo è un partito, una dottrina politica”, ma questa sua vocazione sussiste “in quanto prima di tutto è una concezione totale della vita. Non si può essere fascisti in politica e non fascista, come ricordavo testé alla Sezione del fascio, in scuola, non fascisti nella propria famiglia, non fascisti nella propria officina”. Il fascismo – avrebbe poi precisato nel Manifesto – “è concezione austera della vita, è serietà religiosa, che non distingue la teoria dalla pratica, il dire dal fare, e non dipinge ideali magnifici per relegarli fuori di questo mondo”.
L’iniziativa gentiliana non poteva rimanere senza risposta, e difatti il suo ex amico e collaboratore Benedetto Croce si fece interprete dei sentimenti degli oppositori, che in quell’anno erano ancora numerosi e pugnaci. Il contro-manifesto apparve qualche settimana dopo, il primo maggio, pagine in cui gli intellettuali antifascisti elencarono le ragioni della loro contrarietà, evidenziando quanto fosse erroneo contaminare politica e letteratura, politica e scienza, “che quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi nemmeno errore generoso”. Si era in presenza di un “imparaticcio scolaresco” in cui la stracitata “religione” serviva unicamente a legittimare un uso spregiudicato dell’azione politica.
Il duello Gentile-Croce fece scalpore. Ambedue godevano di notevole fama, in Italia e fuori confine: filosofi capifila dell’idealismo si erano proposti di raccogliere l’eredità dei patrioti risorgimentali, così da conferire alla nuova Italia unita onore e prestigio internazionale. Tuttavia le traiettorie avevano preso a divaricarsi già durante la Grande Guerra del ’14-18. Croce si era mantenuto fermo sui princìpi liberali, mentre Gentile già inclinava verso una concezione autoritaria della politica, per poi avvicinarsi all’ex socialista Mussolini. Durante il ventennio indossò i panni del ‘filosofo in camicia nera’ (titolo della biografia che gli ha dedicato lo storico Mimmo Franzinelli), dirigendo iniziative editoriali come l’Enciclopedia Treccani e presiedendo varie istituzioni culturali, tra cui la Normale di Pisa. Portava il suo nome una riforma della scuola che aveva nel liceo classico il suo perno.
Quel memorabile scontro, che sanciva la definitiva rottura tra i due, si ripercosse anche sui discepoli, a lungo convinti che gli orizzonti ideali di Croce e Gentile coincidessero. Da quel momento bisognava scegliere da che parte stare: o con l’uno o con l’altro, con scarse vie di fuga (che pur ci furono). Ma ormai la battaglia, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti nel 1924, si era fatta impari di mese in mese, fino a sfociare nelle ‘leggi fascistissime’ che annullavano tutte le garanzie costituzionali, come l’esistenza dei partiti e la libertà di stampa. Il fascismo si faceva totalitario, con l’ambizione di condizionare la quotidianità del popolo italiano, attraverso la scuola, i sindacati, il dopolavoro, le politiche procreative, le colonie per l’infanzia e i raduni ginnici, la stampa, la radiofonia, il cinema.
La ferita tra Gentile e Croce rimase aperta fino al 1943, fino all’adesione del primo al regime criminale e filonazista della Repubblica di Salò. Il filosofo dell’atto puro pagò con la vita quel suo ultimo, estremo gesto di fedeltà al Duce. Il 15 aprile del 1944 un nucleo di partigiani comunisti appartenenti al Gap (Gruppo di azione patriottica) lo uccise mentre rientrava nella sua dimora fiorentina (l’operazione è ricostruita nel dettaglio nel volume ‘La sentenza’ di Luciano Canfora).
Il rapporto tra gli intellettuali e la politica assunse il carattere di urgenza al termine della guerra, ma dentro una costellazione diversa, questa volta democratica e repubblicana. Tutti i partiti che avevano condiviso la lotta di liberazione ritennero vitale ripristinare i contatti con gli esponenti dell’intellighenzia che il fascismo aveva perseguitato e incarcerato, oppure inviato al confino. Il leader che subito comprese l’importanza di reclutare gli intellettuali fu Palmiro Togliatti, sulla base di un convincimento che risaliva all’esperienza con Gramsci a Torino nell’immediato primo dopoguerra. Era essenziale, per il partito che alla Resistenza aveva dato il contributo maggiore, ricreare su basi solide la relazione tra la politica e la cultura. Emblematico, in proposito, l’editoriale che Togliatti scrisse sul primo numero di Rinascita, nel giugno del 1944: “Non separiamo e non possiamo separare le idee dai fatti, il corso del pensiero dallo sviluppo dei rapporti di forze reali, la politica dall’economia, la cultura dalla politica, i singoli dalla società, l’arte dalla vita reale. In questa concezione unitaria e realistica del mondo intiero è la nostra forza della dottrina marxista”. Colpisce la consonanza di temi e di lessico con il Gentile del 1925. Segno che in fondo le differenze tra le due dottrine – quella fascista e quella comunista di osservanza staliniana – non erano poi così abissali nella pretesa di concepire un disegno organico e totalizzante della società.