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Per qualche deal in più

Pare che ogni inquilino della Casa Bianca al secondo mandato, soprattutto se al seguito di una schiacciante vittoria elettorale, venga preso da una sorta di vertigine del potere, che lo metterebbe al riparo dagli interventi del Congresso. Nel caso di Donald Trump, anche da quelli della giustizia federale di cui non rispetta neppure le sentenze penali. Fra i visitatori nell’Ufficio Ovale, chi meglio ha saputo finora rispondere a questa sorta di narcisistica megalomania è stato il primo ministro britannico Starner, che in pieno terremoto dei dazi doganali se ne è uscito vittorioso lusingando in diretta televisiva Trump con un invito alla corte di re Carlo.

Chi nella guerra commerciale scatenata da Trump deve comunque sedersi al suo tavolo e negoziare una tregua tariffaria per il suo Paese si trova di fronte un saccente mercantilista circondato da una coorte di fedeli altrettanto incompetenti, ma con alcune caratteristiche negoziali ormai evidenti. Marcato sicuramente anche dalla sua carriera televisiva in cui lui solo giudicava “l’apprendista” che doveva essere “licenziato” (you are fired!), Trump mira esclusivamente alla vittoria o a qualunque cosa lui possa spacciare per essa. In questo senso, la presidenza attuale degli Usa si distanzia nettamente dalla pratica negoziale e diplomatica tradizionale che, almeno formalmente, mira di regola al win-win, con entrambi i contraenti che potranno dirsi “vincenti”.

Appena insediatosi alla Casa Bianca, il businessman nazionale, pur d’arrivare ad attribuirsi la pace in Ucraina, e fare qualche affare (deal) in Russia, ha così capovolto la regola che in una trattativa bisogna offrire il minimo e chiedere il massimo concedendo subito tutto a Putin, lasciandogli persino la possibilità di aggiungere nuove condizioni, compreso la testa di Zelensky stesso, cui andavano addossate tutte le colpe. Le trattative, condotte con la Russia come con l’Iran da soci d’affari del presidente sono poi state puntualmente accompagnate, a prescindere dal loro reale andamento, da dichiarazioni trionfalistiche o minacce senza seguito. Senza alcun’altra strategia che quella di stare dalla parte del più forte, in Palestina Trump si adagia sui piani espansionistici di Netanyahu, sempre più in contraddizione con la dinamica degli “Accordi (e delle promesse di investimenti) di Abramo”.

Se ne trae l’impressione d’aver a che fare con un “utile idiota”, schiavo d’interessi altrui oltre che dei propri, con una Borsa americana ormai abituata a puntare sul contrario di quello che il presidente dice di voler fare. Basta infatti che le cose si complichino con il mercato o che un coraggioso giornalista lo smentisca in pubblico (la stampa scritta alla Casa Bianca non viene neppure letta) e Trump per paura di perdere la faccia, sempre senza alcuna spiegazione, si tira indietro, secondo la mossa ormai definita del “Taco” (Trump Always Chickens Out). Si parla della sua diplomazia “transazionale”, ma forse sarebbe più giusto definirla “scozzese”, come la doccia.

La vera forza di Trump non sta nella sua capacità di concludere gli affari, ma, come avrebbe detto Bismarck, nella sua assoluta mancanza di scrupoli. O, potendolo, lo si affronta con le sue stesse armi, come stanno facendo i cinesi e minaccia di fare l’Ue. O lo si distrae con un’offerta fuoricampo, che gli permetta comunque di completare la sua immagine di re Mida vincitore.