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Le mele della Lega

Norman Gobbi e Claudio Zali
(Ti-Press)

‘Operazione pulizia’ ha decretato lo stato maggiore della Lega. Le “mele marce” vanno eliminate, così il partito ne esce, almeno in apparenza, rafforzato. Da questo punto di vista, i metodi leghisti sembrano ricalcare quelli di staliniana memoria: culto del capo, cooptazione come metodo di gestione, repressione ed emarginazione dei non allineati, il tutto sotto l’egida del motto maoista: “Il partito si rafforza epurando”. Più in generale, l’analisi di quanto sta accadendo in questi giorni andrebbe condotta alla luce di un celebre aforisma di Ennio Flaiano che, a proposito della situazione politica italiana, osservava: “È grave, ma non è seria”.

Che dire, infatti, del comunicato ufficiale della Lega di due giorni fa, in cui si annuncia l’adozione di alcuni provvedimenti (nei confronti di Alberti e Aldi, anticipati da quest’ultima con le sue dimissioni) “alla luce dei contenuti emersi dal verbale recentemente divulgato dalla stampa – documento accessibile solo alle parti coinvolte in un procedimento penale e quindi non al movimento”? I documenti in questione, presumibilmente, sono due: il famoso rapporto riservato redatto da Enea Petrini e il verbale dell’interrogatorio di Norman Gobbi, condotto dal pg Pagani il 27 settembre 2024.

Questi documenti erano davvero sconosciuti al “movimento”, e in particolare ai suoi dirigenti, che oggi dicono di aver “tirato le conseguenze” dopo esserne venuti a conoscenza? Affatto. Il rapporto Petrini, come noto, è stato condiviso da tutto il gruppo dirigente della Lega, con i consiglieri di Stato in prima fila, nella famosa riunione (maggio 2024) negli uffici di Norman Gobbi. Quanto all’interrogatorio di Norman Gobbi, è ragionevole supporre che almeno lui sapesse cosa aveva dichiarato al pg e che tali dichiarazioni – se non erano menzogne, come sostiene Sabrina Aldi – fossero note ai vertici della Lega. Conclusione: quanto affermato dalla Lega nel comunicato ufficiale è semplicemente ridicolo.

Il meccanismo è ben noto e la storia ci offre numerosi esempi. Ribadire, anche di fronte a disastri politici evidenti, che la linea del partito era corretta, ma che alcuni non l’hanno applicata fedelmente – e per questo devono pagare, così da scaricare ogni responsabilità –. È esattamente ciò che sta accadendo in casa Lega. Sabrina Aldi ed Eolo Alberti sono certamente colpevoli – sul piano politico – di aver partecipato alla “combine”, cioè a uno scambio di favori che coinvolgeva il mondo degli affari, la politica e la giustizia, come racconta nella sua deposizione il consigliere di Stato Gobbi. Ma è altrettanto evidente, a chi voglia vedere, che tutto ciò si è svolto sotto gli occhi complici dell’intero gruppo dirigente leghista, consiglieri di Stato compresi. I quali, di fronte a una “combine” così palese, hanno accuratamente evitato di informare il Consiglio di Stato, il Parlamento e l’opinione pubblica, proprio mentre queste istituzioni stavano trattando le questioni oggetto della stessa “combine”. Pensiamo, ad esempio, alla nomina – contestatissima – a procuratore pubblico di Alvaro Camponovo, figlio di Claudio (datore di lavoro di Sabrina Aldi, vicepresidente della Commissione giustizia e diritti, e “proponente”, a nome della Lega – sostiene lei – della nomina di Alvaro Camponovo).

Tutta questa vicenda, e in particolare i suoi sviluppi più recenti, suggerisce due riflessioni politiche finali. La prima riguarda la responsabilità (anche solo per omissione) della maggioranza della classe politica. In fondo, l’interrogazione dell’Mps ha portato alla luce fatti che tutti conoscevano perfettamente, e che erano già stati oggetto di dibattito pubblico, basti pensare al conflitto di interessi di Sabrina Aldi; ma che per mesi quasi tutti hanno preferito ignorare o dimenticare. E avrebbero continuato a farlo senza il nostro intervento.

La seconda riflessione riguarda i consiglieri di Stato leghisti. Essi dovrebbero interrogarsi non sulla possibilità (o necessità) di scambiarsi i dipartimenti, bensì sulla possibilità – e opportunità – di non ricandidarsi nel 2027. Quello sì sarebbe un vero segnale di volontà di “fare piazza pulita”, di “voltar pagina”, al di là della scontata e penosa retorica della lotta alle “mele marce”.