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L’antisemitismo inizia là dove non lo riconosciamo più

La veemente reazione all’intervento del Dr. Adrian Weiss sulla copertura mediatica della guerra a Gaza solleva interrogativi di fondo – non tanto sul contenuto delle sue critiche, quanto sul modo in cui esse sono state accolte. Weiss, presidente dell’Associazione Svizzera-Israele in Ticino, ha posto l’attenzione su un fenomeno che difficilmente trova oggi spazio nel dibattito pubblico: la presenza di un antisemitismo profondamente radicato, spesso inconsapevole, in parte del panorama mediatico occidentale – anche in Svizzera.

La definizione adottata dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), a cui ha aderito anche la Svizzera, considera antisemita l’applicazione di doppi standard nei confronti di Israele rispetto ad altre democrazie, così come la demonizzazione o delegittimazione della sua politica. Fenomeni di questo tipo si osservano da anni – e in modo particolarmente marcato a partire dal 7 ottobre 2023, quando Israele è stato vittima di un attacco terroristico senza precedenti da parte di Hamas. Eppure, in molti media occidentali, Israele viene rappresentato non come vittima, ma come aggressore.

Il codice deontologico del giornalismo – valido in Svizzera e a livello internazionale – richiede il controllo critico delle fonti e la verifica dei fatti. Tuttavia, in molte dichiarazioni pubbliche e articoli sono state riportate senza filtro cifre e affermazioni provenienti da Hamas, un’organizzazione riconosciuta come terroristica. L’empatia mediatica si concentra quasi esclusivamente sulla popolazione palestinese, mentre le vittime israeliane scompaiono dal discorso pubblico – o vengono relativizzate con un “ma”.

Questa disparità non è casuale: riflette una matrice culturale profonda. Secoli di ostilità religiosa verso gli ebrei hanno contribuito a creare un clima globale di sospetto e svalutazione nei confronti dello Stato ebraico. Oggi questo atteggiamento si manifesta in modo più sottile: nel tono degli articoli, nella scelta dei temi, nel peso emotivo attribuito alle narrazioni. Che Israele, pur vivendo sotto minaccia costante e difendendo principi democratici in un contesto ostile, venga spesso descritto come moralmente inferiore, non è solo una distorsione – è un pericolo.

La reazione all’intervento del Dr. Weiss – una petizione contro la presunta “strumentalizzazione” dell’accusa di antisemitismo – è sintomatica dello stato attuale del dibattito. È vero che criticare il governo israeliano non significa essere automaticamente antisemiti – ma questo è ormai un luogo comune ben radicato in Occidente. Più preoccupante è l’assuefazione a posizioni che vanno oltre la critica legittima e finiscono per isolare Israele nel contesto internazionale.

Quando estremismi politici di destra e sinistra, movimenti antisionisti, esponenti del mondo culturale, università e persino competizioni sportive e musicali come l’Eurovision si ritrovano concordi nel rifiuto di Israele, ogni voce dissenziente viene facilmente marginalizzata.

Il fatto che il Dr. Weiss abbia comunque avuto il coraggio di richiamare l’attenzione sul rispetto degli standard giornalistici merita rispetto – non indignazione. Israele sta conducendo una guerra di difesa contro una rete terroristica che utilizza i civili come scudi umani, e contro un regime iraniano che invoca apertamente la sua distruzione. Questo conflitto coinvolge, di fatto, anche i valori fondamentali delle democrazie occidentali.

La risposta all’iniziativa del Dr. Weiss non dovrebbe essere l’indignazione, ma l’autoriflessione.