La guerra è un abisso. Ce lo ricordano con lucidità e dolore figure come David Grossman, Amos Oz e Liliana Segre. È un abisso in cui rischiano di precipitare israeliani e palestinesi, ma anche l’Europa, travolta da un’ondata di barbarie culturale che trasforma il concetto di “genocidio” in un’arma di vendetta ideologica contro gli ebrei.
Grossman, con il suo dolore autentico, ha ammesso quanto sia devastante anche solo dover pronunciare quella parola in riferimento a Israele. “È una parola-valanga: una volta che la pronunci, cresce e porta solo distruzione e sofferenza”. Ed è proprio questo il pericolo. L’uso parossistico e strumentale di termini come “genocidio” contro Israele non è solo una menzogna storica: è un modo per disumanizzare, per isolare Israele e, con esso, l’intero popolo ebraico. Liliana Segre lo dice chiaramente: “È uno scrollarsi di dosso la responsabilità storica dell’Europa, inventando un contrappasso senza senso, un ribaltare sulle vittime del nazismo le colpe dell’Israele di oggi dipinto come nuovo nazismo”.
Questa è la radice dell’odierno antisemitismo, travestito da buonismo progressista. Lo aveva capito già Martin Luther King, quando ammoniva: “Quando si è contro il sionismo, si è contro il popolo ebraico”. Ma la sinistra europea, che per decenni ha sostenuto regimi teocratici e dittature anti-occidentali, continua oggi a usare la causa palestinese come scudo per giustificare la propria incapacità di affrontare la realtà: l’odio antisraeliano è diventato il nuovo antisemitismo accettabile.
È la stessa sinistra che applaudiva la Rivoluzione Islamica in Iran, ignorando i roghi di donne e dissidenti. È la sinistra che coccolava Arafat nelle stanze del potere europeo mentre Hamas, Hezbollah e altri gruppi armati venivano romanticizzati come “resistenza”. Ed è la sinistra che oggi non batte ciglio di fronte alle alleanze tra movimenti “progressisti” e gruppi islamisti che sognano la distruzione di Israele.
Si condanna Israele per le immagini strazianti di Gaza, ma si dimentica sistematicamente chi ha scatenato questa guerra. Il 7 ottobre non è stato un incidente diplomatico: è stato un pogrom. Donne stuprate, bambini bruciati vivi, famiglie intere massacrate a sangue freddo. Hamas non è un interlocutore politico, è un’organizzazione terroristica che rifiuta ogni soluzione di convivenza e usa la propria popolazione come scudo umano. Eppure, ogni volta che Israele si difende, l’Occidente si affretta a esigere “proporzionalità”, senza chiedere a Hamas di smettere di bombardare civili israeliani o di nascondere arsenali sotto scuole e ospedali.
La verità è semplice e brutale: Israele viene giudicato con criteri che non si applicano a nessun altro Stato. La Turchia può distruggere villaggi curdi, Assad può sterminare mezzo milione di siriani con armi chimiche, l’Arabia Saudita può bombardare scuole nello Yemen, e nessuno grida al genocidio o invoca boicottaggi culturali. Ma quando Israele combatte per sopravvivere, la condanna è automatica.
Questo doppio standard non è casuale. È l’eredità di secoli di antisemitismo europeo, che oggi si traveste da “difesa dei diritti umani” per sentirsi moralmente superiore. È un antisemitismo subdolo, che ha cambiato linguaggio ma non intenzioni. E chi continua a negarlo è parte del problema.
David Grossman, pur nella sua disperazione, sa che la soluzione non è la resa di Israele. Sa che la pace, se mai arriverà, richiederà responsabilità da entrambe le parti. Ma la pace non si costruisce con la retorica delle anime belle che, a distanza di sicurezza, si permettono di giudicare chi lotta per non essere sterminato. La pace si costruisce quando si riconosce che Israele ha diritto di esistere e di difendersi, e che il terrorismo va smantellato, non giustificato.
La sinistra che oggi grida al genocidio, ma ha sempre chiuso un occhio davanti ai crimini di regimi teocratici e dittature, dovrebbe fare i conti con la propria ipocrisia. Se davvero vuole essere credibile, deve iniziare a trattare Israele come uno Stato sovrano, non come il capro espiatorio delle colpe che l’Europa non vuole affrontare.