In economia le narrazioni contano nella formazione delle aspettative e delle reazioni politiche. Lo spiega bene Robert Shiller, premio Nobel per l’economia, in un suo libro del 2020 in cui dimostra come il diffondersi virale di alcune idee sotto forma di narrazioni possa modificare interi mercati, che si tratti della convinzione che i titoli delle società tecnologiche non possano far altro che salire, che i prezzi delle case non scenderanno mai o che certe aziende siano troppo grandi per fallire. La Svizzera è innegabilmente una narrazione in sé. A partire da Voltaire, il quale diceva che “se vedi un banchiere svizzero saltare dalla finestra vagli dietro. Sicuramente c’è da guadagnare”. Un’immagine, una narrazione, resa ancora più pregnante da una serie di fatti più recenti, se si pensa alla vicenda non proprio nobile dei Fondi ebraici in giacenza, all’attaccamento ostinato al segreto bancario, agli scandali bancari oggetto di sanzioni multimilionarie da parte degli Usa, alle accuse di manipolazione valutaria (la lista non è esaustiva). Tutti fatti che volenti o nolenti hanno rafforzato quella narrazione che lo scorso febbraio Steve Bannon, l’anima nera della svolta trumpiana, in un’intervista a Massimiliano Herber, corrispondente della Rsi negli Stati Uniti, ha rilanciato definendo l’élite finanziaria svizzera (non il popolo, non sia mai) una “banda di corrotti e corruttori, di cui tutti noi dovremmo vergognarci”. Un’immagine populista, certamente compatibile con il modo di argomentare di Trump sulle barriere doganali, così infarcito di risentimento e intenzioni punitive, di toni ricattatori e sentimenti vendicativi.
Non si creda però che basti blandire il narcisista Trump su un campo da golf per mitigare la narrazione e fargli cambiare idea. Per quanto il personaggio sia certamente padrone del gioco, la situazione in cui siamo giunti oggi ha una spiegazione sistemica, si iscrive in una dinamica di fattori strutturali che rimandano alla crisi delle regole della globalizzazione e della sua matrice neoliberista, crisi che è alla base del declino dell’impero americano, crisi che si invera in squilibri commerciali crescenti e in perdita di egemonia del dollaro. In questi squilibri la Svizzera primeggia con le sue esportazioni pari al 60% del Pil, ben al di sopra del 33,7% dell’Italia, del 34,2% della Francia, del 43,4% della Germania e di quella Cina, “fabbrica del mondo”, le cui esportazioni rappresentano un mero 19% del Pil. La globalizzazione degli ultimi quarant’anni ha indubbiamente rafforzato questa tendenza, favorendo uno sviluppo industriale che porta la Svizzera ai vertici della classifica mondiale per valore aggiunto manifatturiero pro capite. Senza gli sbocchi sui mercati esteri, per un Paese piccolo come la Svizzera, questo sviluppo non si sarebbe potuto realizzare. In altre parole, la Svizzera è il Paese più globalizzato del mondo, ma è anche il Paese più isolato geopoliticamente, una discrasia che in buona parte spiega la fragilità negoziale a fronte di un Paese, gli Usa, che vuole ristabilire la propria egemonia sul piano industriale, commerciale e monetario, un’egemonia che è fortemente insidiata dalla Cina.
La violenza e l’arroganza trumpiane nei confronti della Svizzera, un tempo considerata l’El Dorado della borghesia, rientra, oltretutto, nella strategia perseguita dall’Amministrazione statunitense di svalutare il dollaro per favorire il riequilibrio della bilancia commerciale e l’alleggerimento del debito federale, conservando comunque la predominanza del dollaro come moneta internazionale. Il che comporta, nella logica trumpiana, un attacco alla piazza economica e finanziaria elvetica per indebolirne l’attrattività. In particolare in questo periodo in cui, secondo la rivista americana Fortune, si assiste a una corsa all’acquisto di oro da parte di ricchi americani, nonché al deflusso di capitali sui nostri conti correnti per proteggersi dall’instabilità politica interna.
Se è vero che la crisi che si è venuta a creare è la conseguenza del cambio di paradigma economico e politico su scala globale, se è vero che la guerra dei dazi comporta l’insediamento dello Stato al centro dei rapporti economici globali, allora è bene non farsi troppe illusioni circa un cambiamento di comportamento di Trump tale da ristabilire una migliore condizione negoziale. Non ci sembra che misure quali la “sburocratizzazione”, la riduzione del costo del lavoro e la defiscalizzazione delle aziende siano misure tali da arginare e rilanciare un’economia fortemente orientata all’esportazione, ricreando in tal modo le stesse cause che ci hanno portato alla crisi attuale. Una crisi di paradigma, di modello economico, in cui, semmai, andrebbe rafforzata la domanda interna con politiche ridistributive, sociali e fiscali più incisive. E allo stesso tempo, ridefinendo le condizioni generali di una politica industriale calibrata sui bisogni della popolazione e dell’ambiente.