Le accuse pesanti, che ultimamente vengono lanciate contro Israele, sono spesso basate su paragoni storici impropri, omissioni di contesto e fonti ampiamente screditate. Dietro queste analisi si cela spesso una costruzione retorica unilaterale, che ignora i principi base del giornalismo etico: pluralismo delle fonti, verifica dei dati e rispetto per la verità. Fra i vari autori spesso citati a sostegno di queste tesi troviamo, ad esempio, Norman Finkelstein, che viene presentato come studioso indipendente, quando, in realtà, è stato accusato di antisemitismo mascherato e definito “apologeta di Hezbollah”, dopo aver incontrato pubblicamente membri dell’organizzazione terroristica e giustificato la loro lotta armata (Jerusalem Post, 2008). David Irving è un altro autore citato, il quale, però, appartiene alla categoria dei negazionisti dell’Olocausto, le cui falsificazioni storiche sono minimizzate (Bbc, 2000). Ad esempio, sull’11 settembre 2001 David Irving ha dichiarato, che la versione ufficiale è “propaganda” e che “ci sono troppi elementi oscuri” per credere alla responsabilità esclusiva di Al-Qaeda, avvicinandosi così a tesi complottiste (C-Span, 2004). Affidarsi a un autore con questo profilo mina la credibilità di qualsiasi analisi che pretenda rigore. Il concetto, poi, di “genocidio” è un tema ricorrente da quando è iniziata la guerra. Viene ormai considerato un fatto accertato, ma la Corte Internazionale di Giustizia (Icj) non ha mai stabilito che Israele abbia commesso un genocidio; ha solo adottato misure provvisorie in attesa del processo (Icj, 2024). Inoltre, la definizione di genocidio della Convenzione Onu del 1948 richiede un’intenzione deliberata di distruggere un popolo “in tutto o in parte”. Israele, pur conducendo operazioni militari in un’area densamente popolata, ha predisposto avvisi di evacuazione, corridoi umanitari e forniture di aiuti; tutte azioni incompatibili con una strategia genocida (Icrc, Customary Ihl). È fuorviante anche affermare che la maggior parte delle vittime siano civili, perché queste cifre provengono da documenti parziali e non verificati, basati su cifre del Ministero della sanità di Gaza, controllato da Hamas. L’Onu stessa riconosce che tali dati sono “difficili da verificare” (Un Ocha, 2024). Le cifre, poi, non distinguono tra terroristi e civili e includono morti per fuoco amico o cause indirette. Da più parti, poi, si assiste ad un vero e proprio attacco diretto alla libertà di espressione, che ricorda i metodi dei regimi socialisti dell’Europa orientale, dove il dissenso veniva bollato come “propaganda ostile” per giustificarne la repressione. L’etica giornalistica, secondo la Carta Globale dell’Etica dei Giornalisti della Federazione Internazionale (Ifj), impone di “pubblicare informazioni fondate” e “non sopprimere fatti essenziali” (Ifj, 2019). Selezionare fonti esclusivamente a senso unico e screditare sistematicamente le opinioni contrarie vìola questi principi. Come nei sistemi repressivi dell’ex blocco sovietico si demonizza chi dissente, accusandolo di “negazionismo” o complicità, si invoca la legge per intimidire e non per tutelare e si riscrive la narrazione storica, per adattarla a una linea politica propagandistica. Il pluralismo e la libertà di espressione sono pilastri della democrazia e difenderli significa garantire che ogni cittadino possa formarsi un’opinione basata su fatti verificabili e non su narrazioni manipolate.