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La petizione del dolore

(Ti-Press)
8 settembre 2025
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Tramite un sito web americano è stata recentemente promossa una petizione per chiedere a una procuratrice pubblica di ricorrere al Tribunale federale contro una determinata sentenza. In Ticino credo sia una prima, promossa dai famigliari della vittima di un incidente stradale che ritengono troppo mite la pena inflitta al responsabile. Non giudico la loro reazione, e chi potrebbe permetterselo davanti a tragedie simili che anzi inducono a umana vicinanza, ma vorrei invece ragionare sul tema del viepiù frequente passaggio della parola delle vittime dalla sfera giudiziaria a quella collettiva, altrimenti detto la mediatizzazione e socializzazione della loro posizione.

Da una trentina di anni, chi ha subito un reato ha smesso di poter essere solo spettatore del procedimento giudiziario. La legge, e molto giustamente, gli garantisce oggi ampie possibilità di far sentire le sue ragioni e ottenere sostegno statale. Al tempo stesso, chi subisce un reato (ma invero non solo lui, anzi) sceglie sempre di rivolgersi al pubblico e trova agevolmente il modo di riuscirci. L’esempio a noi più vicino, quello italiano, è eloquente e il tutto avviene in un intreccio di disperazioni, pietas umana, attenzione per le sofferenze, curiosità più o meno morbosa, denuncia doverosa, strumentalizzazione, buonismo, moralismo, intenzioni politiche diverse, ambizioni individuali, strategie editoriali o commerciali. Mi interessa discutere dell’effetto che tutto ciò genera sulle procedure giudiziarie e sulle attese collettive nei confronti di quella giustizia che, peraltro, vorrebbe di solito umanissima chi è imputato e severissima chi è vittima.

Molto in effetti accade quando il fatto da giudicare diventa un tema pubblico, come anche da noi avviene con intensità crescente. Scema progressivamente la separazione tra quanto è interno a una procedura penale e quanto è comunicato a un pubblico che diventa, via via, una sorta di parte del processo e, in un certo senso, vi esercita i suoi “diritti” tramite i media o le reti sociali. Sceglie, premia, critica, si indigna, ingiunge, pretende, investiga, insomma affianca o contrappone la “sua” giustizia a quella dei tribunali. All’insegna del motto “se interessa allora è importante” anche alcuni media tradizionali alimentano queste dinamiche e il risultato è che quanto dovrebbe per quanto possibile restare esterno al procedimento, le variegate attese sociali e politiche, influenza più o meno consapevolmente i linguaggi e i comportamenti di coloro che vi intervengono, ponendo in definitiva a rischio l’autonomia delle loro scelte e decisioni. Un problema certo non solo locale, anzi, ma che in Ticino, realtà piccola, periferica, fortemente mediatizzata e politicizzata, è semmai accresciuto.

Proprio in questa dinamica si inserisce la petizione cui ho fatto cenno in esordio, fornendo informazioni dettagliate sul fatto, la vittima e l’autore, suddividendo giudici e avvocati in buoni e cattivi. Certo, raccogliere firme è un diritto costituzionale ma, e anche prescindendo dal tragico caso specifico, capiamo cosa significa farlo in relazione a un singolo episodio giudiziario? Quali prospettive rischiano di aprirsi, ad esempio quando si tratterà di un reato socialmente odioso, di un imputato celebre, di una vittima popolare, di un tema politicizzato? O, ancora, quando interverrà questo o quel magistrato, questo o quel legale? Immaginarci i potenziali effetti di tutto ciò non dovrebbe essere difficile, eppure non mi pare che l’episodio di cui parlo abbia suscitato reazioni a difesa dell’autonomia della giustizia o dell’avvocatura. Nessuna sorpresa, in un tempo dove, come qualcuno ha scritto, tutto è visibile ma nulla è veramente visto.