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Anglicismi bellinzonesi

Qual è stato l’iter (il cammino), in breve, che ha portato a questa nuova situazione di fatto. All’inizio, qui da noi, l’inglese lo si studiava nelle scuole pubbliche medio-superiori o nelle scuole private. Poi, all’improvviso, in America, che allora si diceva fosse in anticipo sull’Europa di almeno venti anni, irruppe l’informatica, una per tutte la Silicon Valley. Da lì via il fenomeno assunse dimensioni mondiali.

Ricordo che a quel tempo ero al telegrafo, prima a Ginevra poi a Zurigo. Un giorno un distinto signore chiamò me e un mio collega proponendoci di entrare nella sua ditta, appena costituita e che si occupava di “data base” in informatica. Lo dissi ai miei genitori, ricevendo un veto assoluto di abbandonare “un posto federale” sicuro. E tutto finì lì. Avessi accettato il grande cambiamento chissà dove sarei approdato! Iniziò da quel momento in poi la grande escalation (la scalata, l’intensificazione) dell’informatica, che generò fra le altre cose l’esplosione dei termini inglesi associati proprio al linguaggio informatico. Gli anglicismi invasero rapidamente tutti i campi dell’economia e della finanza, della scienza e dello sport, complici giornalisti che, illudendosi di essere “à la page” (essere aggiornati), farciscono i loro articoli di inglesismi inutili e scontati, invece di cercare un corrispettivo in italiano. Ci sarebbe molto da dire in proposito. Citerò solo un interessante libro, scritto da una professoressa universitaria, certa Maria Luisa Villa, dal titolo ‘L’inglese non basta’, nel quale ammonisce che “i futuri ricercatori che si formano in inglese non assimilano il sapere nella loro lingua (parla dell’italiano) e non potranno a loro volta trasmetterlo se non in inglese. Dunque l’italiano è destinato a perdere la capacità di divulgazione scientifica”. Nello sport, poi, i grandi campioni e i meno grandi si esprimono in inglese, certamente non shakespeariano, ma sufficiente a capire e a farsi capire dagli altri. Anche a Bellinzona, da un po’ di tempo in qua, è invalsa la tendenza a corredare vetrine, insegne luminose, recapiti e indirizzi commerciali in inglese; persino il vecchio ufficio turistico ha cambiato pelle ed è diventato, se non sbaglio, “Infopoint” quale unica scritta, senza più nemmeno l’italiano, come se improvvisamente la clientela bellinzonese e del contado provenisse in maggioranza dall’Inghilterra o dall’America. D’accordo ci sono i giapponesi e i cinesi, ma ai miei occhi non sembrano sciamare in massa nei negozi di Viale della Stazione. Per cui è giustificato calare sbracatamente le braghe di fronte a sua maestà l’inglese?