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La soluzione finale: genesi e responsabilità

Gli storici continuano a interrogarsi sulle dinamiche che portarono al massacro di oppositori, rom, omosessuali e soprattutto ebrei. Un resoconto

80 anni fa la liberazione
(Keystone)
27 gennaio 2025
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A 80 anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau da parte dell’Armata Rossa (gli anglo-americani liberarono poi nella primavera dello stesso anno, il 1945, i Lager di Buchenwald, Mauthausen, Bergen-Belsen, Dachau) gli storici continuano a interrogarsi sulle dinamiche e le responsabilità che portarono al massacro di oppositori, rom, omosessuali e soprattutto ebrei il cui annientamento era stato pianificato nel quadro della “soluzione finale”.

La ‘distruzione degli ebrei d’Europa’

Malgrado il progressivo accesso alle fonti, la dinamica che portò i nazisti a mettere in atto la “soluzione finale” rimane in parte oggetto di discussione. Due scuole di pensiero si sono confrontate per decenni sul controverso tema della “Endlösung”, quella degli intenzionalisti e quella dei funzionalisti. Non essendo stato rinvenuto alcun ordine scritto di sterminio degli ebrei da parte di Hitler, gli storici hanno dovuto approntare un metodo deduttivo basato su numerosi fattori: documenti, cronologia, testimonianze. Per gli intenzionalisti gli ordini di dare inizio al massacro emessi nella primavera o estate del 1941 derivarono direttamente dall’idea che Hitler aveva espresso già nel 1919. Ipotesi che fa leva anche sul celebre discorso in cui il Führer proclamò nel gennaio del 1939 la necessità di “annientare la razza ebraica”. Molti storici, come Martin Broszat, ritengono tuttavia che la “soluzione finale” nelle tetre modalità che assunse, non scaturì da un’intenzione iniziale e da una decisione di Hitler, ma si sviluppò nelle sfere del potere nazista, pezzo per pezzo. Alcuni funzionalisti come Hans Mommsen si spingono fino a sostenere che Hitler non svolse un ruolo decisivo nell’esecuzione dei piani di annientamento. Raul Hilberg, probabilmente il maggior storico della Shoah (“La distruzione degli ebrei d’Europa” è una pietra miliare negli studi sul nazismo) giunge alla conclusione che la “Endlösung” procedette per fasi, passi in sequenza compiuti da diversi individui che presero decisioni all’interno di un apparato burocratico enorme: prima ci fu la campagna antisemita, poi l’espropriazione, la deportazione e infine il massacro.

Perché e quando?

Inizialmente per la Germania nazista si trattava di espellere gli ebrei dal territorio tedesco, rendendolo “Judenfrei”. Fino al 1940 i progetti antiebraici erano incentrati sul principio di allontanare i non ariani dal “Lebensraum” germanico, ad esempio deportando gli ebrei in Madagascar. L’idea dominante era quella di riunire tutti gli ebrei in un territorio lontano. Non vi sono, fino ad allora, tracce di un piano di annientamento fisico di massa. L’escalation antisemita scatta nel 1933 con l’ascesa al potere di Hitler che conquista la cancelleria del Reich. Nel 1935 le leggi di Norimberga codificano la discriminazione degli ebrei che si vedono amputati dei diritti civili, del diritto di voto e dell’accesso a numerose professioni (avvocato, insegnante, medico eccetera). Con la “notte dei cristalli” nel 1938 (furono incendiate, in risposta all’uccisione da parte di un giovane ebreo polacco di un diplomatico tedesco a Parigi, 267 sinagoghe, quasi 300 negozi, 170 appartamenti) la giudeofobia raggiunse livelli record in Germania portando alla massiccia emigrazione della popolazione ebraica. Si risvegliò il vecchio antisemitismo che affondava le radici nel lontano Medioevo, con la carneficina perpetrata dai crociati lungo le rive del Reno e della Mosella alla fine del XI secolo. Un antisemitismo religioso a cui si affiancò con il nazismo – ricorda lo storico Isaac Deutscher – una giudeofobia violentemente anti-cristiana, di matrice pagana, molto più dinamica e spietata. Alla vigilia della guerra, due terzi degli ebrei erano già emigrati da Germania e Austria. Nel 1941, poco prima della “soluzione finale”, la Germania contava una popolazione di soli 170mila ebrei. Oltre otto milioni si trovavano invece nei territori occupati dal Reich.

Il Führer e l’antisemitismo

Hitler considerava gli ebrei i nemici più infidi e sinistri dei tedeschi. Nel “Mein Kampf” pubblicato nel 1924 parlava di “peste ebraica, peggiore della peste nera medievale” un “veleno” che controlla la stampa, l’arte, la letteratura. Secondo Eberhard Jäckel (“Hitlers Weltanschauung”, 1969) per il Führer gli ebrei difendevano i valori nemici della supremazia razziale tedesca: internazionalismo, pacifismo, democrazia. Associati al bolscevismo, venivano considerati responsabili dei mali che attanagliavano il Paese, vittima del trattato di Versailles. Con l’evoluzione bellica, scrive Michael Marrus nel fondamentale “L’olocausto nella storia” (Il Mulino, 1994), l’antisemitismo non ha fatto che crescere: per lo storico canadese il nazionalismo si presentava come baluardo ariano contro la decadenza e l’internazionalismo di cui gli ebrei sarebbero stati gli artefici.

La svolta

Uno dei maggiori studiosi della Seconda guerra mondiale, Andreas Hillgruber, aveva avanzato un’ipotesi, oggi condivisa dagli storici, che la svolta fu determinata dall’“operazione Barbarossa” avviata nel giugno del 1941 quando il Reich invase la stessa Unione Sovietica con cui due anni prima aveva dato avvio alla Seconda guerra mondiale spartendosi la Polonia. Secondo lo storico tedesco la soluzione finale derivò dalla fissazione ideologica sul bolscevismo che nella mente del Führer era inseparabile dal giudaismo internazionale. La strage di massa fu la conseguenza della mobilitazione ideologica che alimentò l’attacco all’Unione Sovietica lanciato il 22 giugno del 1941. Fu in quel contesto, e non prima, che venne presa la decisione dell’annientamento degli ebrei europei. Decisione poi “ufficializzata” nel gennaio del ’42 nella celeberrima conferenza di Wannsee, nei pressi di Berlino, sotto la guida del generale delle SS Heydrich. L’uccisione di oltre cinque milioni di ebrei europei è indissociabile dall’aggressione all’Unione Sovietica. In quel contesto cambiò radicalmente la politica nazista: nell’ottobre del 1941 Berlino ordina alle SS di bloccare tutte le uscite dai territori conquistati dai tedeschi. Sul fronte orientale entrarono in funzione gli Einsatzgruppen, unità mobili al seguito dell’esercito tedesco incaricati di massacrare, fucilandoli, ebrei e oppositori. Quattro unità (A nei Paesi baltici, B a Smolensk e in Bielorussia, C in Ucraina centrale, D in Ucraina meridionale) perpetrarono carneficine in cui persero la vita almeno 1,3 milioni di persone. A Babij Jar, nella periferia di Kiev, furono fucilate nel settembre del ’41 almeno 33mila persone, in gran parte di confessione ebraica.

I campi di sterminio

La macchina della morte era attiva da tempo: in due anni furono uccisi, gassati, 70mila malati mentali. Ma lo sterminio di massa che mirava alla “distruzione degli ebrei” scattò a fine ’41 quando – scrive lo storico Arno Mayer – l’insuccesso della guerra sul fronte orientale convinse i gerarchi nazisti ad accelerare l’opera di annientamento dei nemici. Nel dicembre 1941 la Germania comincia a gassare gli ebrei. Nascono in quel periodo i primi campi di sterminio in Polonia. A Chelmo sono i camion a produrre il gas letale. L’industria della morte cresce velocemente: campi di sterminio vedono la luce nel Generalgouvernement in Polonia a Belzec, Sobibor, Treblinka, Majdanek. E poi ad Auschwitz, nell’alta Slesia, territorio incorporato al Reich. Divenuto sinonimo stesso di Shoah, il Lager polacco costituiva di fatto una sorta di riassunto del sistema concentrazionario nazista: al tempo stesso campo di concentramento (Auschwitz I), di sterminio (Auschwitz II - Birkenau), campo di lavoro (Auschwitz III in zona industriale al servizio di Krupp, Siemens, Ig Farben). Dapprima carcere per oppositori polacchi e poi dalla primavera del 1942 luogo di morte per rom, comunisti e soprattutto ebrei. Secondo Raul Hilberg, ad Auschwitz, negli altri campi di sterminio e nei massacri degli Einsatzgruppen furono uccisi 5,1 milioni di ebrei, i due terzi della popolazione ebraica europea, tra cui tre milioni di polacchi, 700mila sovietici, quasi 300mila romeni, 200mila ungheresi, 130mila lituani, 70mila francesi e 9mila italiani. Nel più celebre dei campi di sterminio, secondo Franciszek Piper, presidente del Museo nazionale di Auschwitz, perirono quasi un milione di ebrei, in buona parte vittime del letale Zyklon B.

La banalità del male

Fu Hannah Arendt, nei celebri articoli scritti per il periodico New Yorker, a teorizzare la “banalità del male”. In opposizione alla tendenza a demonizzare i carnefici, coprendo nel 1961 a Gerusalemme il processo Eichmann (responsabile della logistica dello sterminio) la filosofa ebrea tedesca sosteneva che gli aguzzini non erano né mostri disumani né barbari incivili: si trattava di burocrati, insensibili, che obbedivano pedissequamente a degli ordini. In altre parole: funzionari ossequiosi, che applicavano delle direttive. Teoria controversa che aveva tuttavia convinto intellettuali del calibro del polacco Zygmunt Bauman. Le successive ricerche storiografiche hanno tuttavia dimostrato la fragilità delle tesi della Arendt. In particolare gli studi del britannico David Cesarani hanno dimostrato quanto nel processo Eichmann avesse orchestrato una messinscena. In interviste realizzate con un veterano SS in Argentina negli anni 50, Eichmann aveva rivelato in effetti la sua natura di assassino di massa convinto, un criminale che faceva sue le più truci mire naziste: “Morirò felice portando con me cinque milioni di nemici del Reich”.

Complici e spettatori

Un lungo e controverso capitolo nella storia dell’Olocausto riguarda gli spettatori e i compici, categoria nella quale Raul Hilberg inserisce anche dirigenti degli “Judenräte” di alcuni ghetti polacchi che collaborarono con i nazisti. Accuse che hanno suscitato non poche controversie tra gli storici. In termini molto generali, sono rari gli Stati e i settori della società che si opposero all’antisemitismo nazista. Tra le nazioni satelliti della Germania, Slovacchia, Ungheria, Romania, Croazia, Bulgaria, solo in quest’ultimo Paese l’antisemitismo ufficiale ebbe qualche difficoltà ad attecchire. In Francia ma anche in Italia la politica nazista incontrò pochi ostacoli, mentre la Danimarca costituisce uno dei rari esempi virtuosi. La Svizzera, collaborando economicamente col Reich, dimostrò quanto la neutralità fosse di fatto un mito: il numero di profughi accolti calò drasticamente quando a partire dal ’42, cioè dallo sterminio, il loro flusso cominciò ad aumentare. Non solo: come ricorda Hilberg nel suo “Carnefici, vittime, spettatori” (Mondadori 1994) “nel 1938 la Svizzera diventò il primo e unico Paese neutrale a introdurre una legge antisemita tedesca: Heinrich Rothmund della Polizia federale ottenne che gli ebrei con passaporto tedesco fossero identificati in modo specifico con la lettera J”. Per quanto riguarda la Germania gran parte della popolazione, ci dice lo storico Philippe Burrin, accettava la discriminazione ed esclusione degli ebrei, malgrado qualche sacca di resistenza tra la classe operaia e alcuni ambienti cattolici, in chiara dissonanza con i silenzi di cui si era macchiato il Vaticano di papa Pio XII.