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Quanto è riduttiva e dannosa la nostra visione degli anziani

Quella degli over 65 è una popolazione percepita come malata, sola, triste, dipendente, incapace di evolvere. Si chiama ageismo e ha gravi conseguenze

(Imago)
14 marzo 2025
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«Se in un locale con cento persone si chiede “chi conosce la parola razzismo?” probabilmente tutte alzeranno la mano. Lo stesso vale per “sessismo”. Se invece si domanda “chi ha mai sentito parlare di ageismo?” la reazione sarà molto diversa. Eppure gli studi dimostrano che le discriminazioni, i pregiudizi e gli stereotipi ai danni di qualcuno in ragione della sua età, in particolare se anziano – a questo si riferisce l’espressione – comportano delle conseguenze altrettanto gravi a livello di benessere, partecipazione sociale e salute che razzismo e sessismo. E sono addirittura più diffusi, non fosse altro per il fatto che tutti invecchiamo». Le considerazioni sono di Christian Maggiori, professore di scienze sociali presso la Haute école de travail social di Friborgo e uno dei massimi esperti in Svizzera della questione.

Una visione negativa da almeno 200 anni

«Purtroppo oggigiorno la visione della nostra società nei confronti degli anziani è essenzialmente negativa – illustra Maggiori –. Generalmente la popolazione anziana è percepita come malata, sola, triste, dipendente dagli altri, incapace di adattarsi alle novità o di evolvere». Si tratta di una visione che non costituisce una novità, spiega il professore: «La situazione è evoluta anche con la pandemia e in generale sta continuando a evolvere a causa dell’invecchiamento della popolazione, ma è essenzialmente negativa da almeno 200 anni».

Con l’invecchiamento certe problematiche diventano più evidenti

Durante il periodo del Covid, riprende Maggiori scandagliando le ragioni alla base del rafforzamento dell’ageismo, «abbiamo assistito alla paura piuttosto diffusa che gli anziani occupassero troppi posti letto negli ospedali a discapito di persone più giovani di cui si tende a considerare la vita di maggior valore». Quanto all’invecchiamento della società, «questo comporta un aumento proporzionale ma anche quantitativo degli anziani che produce un crescente timore da parte della popolazione più giovane di un ammanco futuro di risorse. Il discorso secondo il quale “quando saremo anziani noi non ci saranno più soldi nelle casse dell’Avs” si sente sempre più spesso. Inoltre con l’aumento della popolazione anziana determinate problematiche, quali la demenza senile, diventano più evidenti e di pari passo evolve anche la ricerca scientifica nel ramo geriatrico che per sua natura si focalizza soprattutto sui problemi. Ma nonostante questi tocchino unicamente una chiara minoranza della popolazione anziana, contribuiscono a consolidare la visione stereotipata negativa».

‘Tanto sono gli acciacchi dell’età, non si può fare niente’

Quanto agli ambiti in cui esistono manifestazioni di ageismo, «la buona notizia – dice Maggiori – è che non ce n’è uno particolarmente toccato, la cattiva è che lo sono tutti. Che si tratti dell’ambito familiare, di quello professionale, del sistema sanitario, dei luoghi di attività sociali, delle rappresentazioni mediatiche, purtroppo troviamo ageismo ovunque. In famiglia si ha ad esempio quando non viene più chiesto il parere o la volontà di un parente anziano, magari del nonno o della nonna, o quando si prendono decisioni al suo posto malgrado sia perfettamente capace di farlo. Nel mondo professionale quando i lavoratori oltre i 50 anni non sono considerati per una promozione o per la formazione continua ritenendo che le loro competenze siano in declino. Nel sistema medico quando gli interventi vengono decisi unicamente in base all’età cronologica del paziente senza tener conto di una visione più complessiva della situazione, o quando si forniscono servizi di qualità inferiore o si disincentiva l’accesso a determinate cure perché “tanto sono gli acciacchi dell’età e non si può fare niente”. Esistono tra l’altro degli studi che dimostrano come i medici tendano a ricordarsi con più fatica il nome dei pazienti anziani e a rivolgersi loro meno direttamente anche se potrebbero farlo». Si tratta solo di alcune delle numerose situazioni della vita quotidiana in cui agiscono questi stereotipi legati all’età.

Visioni integrate fin da bambini

Stereotipi che sono percepiti e integrati fin da molto giovani, «già dai 2-3 anni – evidenzia il ricercatore – e ci accompagnano nel corso dell’età adulta. Spesso i bimbi piccoli, come vedo con mia figlia, quando imitano una persona anziana si ingobbiscono e parlano in modo particolare, quando vedono nei libri dei personaggi con bastoni o occhiali li chiamano nonna e nonno anche se i loro nonni non portano né bastone né occhiali». Questo, spiega Maggiori, succede perché l’identificazione di simili rappresentazioni con gli anziani è molto diffusa nella società. «Anche nelle serie tv, nei film o nei romanzi la presenza di personaggi anziani che non siano malati o in fin di vita è proporzionalmente molto lontana dai conti se si considera che gli uomini e le donne sopra i 65 anni sono rispettivamente un quinto e un quarto della popolazione e la maggior parte di loro non è in quelle condizioni».

Una percezione che può accorciare la vita di sette anni e mezzo

Succede poi che quando arriviamo a una certa età in cui ci consideriamo come anziani o la società ci considera come tali, «questi stereotipi che avevamo nei confronti degli anziani diventano gli stereotipi che applichiamo anche a noi e che quindi determinano l’immagine che ci facciamo della nostra persona – rileva Maggiori –. Quante volte si sente dire “alla mia età non si può più...”. Non si può più ad esempio imparare una nuova lingua, e quindi non ci si prova neanche. Ma è assolutamente falso, semplicemente cambiano le strategie di apprendimento». Insomma, indirettamente questi stereotipi influenzano anche il modo della persona stessa di comportarsi. «Ricerche attestano come attribuirsi una percezione molto negativa della vecchiaia porti a una diminuzione fino a sette anni e mezzo della speranza di vita – indica Maggiori –. È una cifra enorme».

Miliardi di costi

Oltre che individuali, le ripercussioni legate all’ageismo sono anche sociali ed economiche. «Negli Stati Uniti è stato calcolato che nel 2020 tra gli ultrasessantenni un dollaro su sette speso in relazione alle malattie più costose secondo i dati dell’Institute for Health Metrics and Evaluation era legato a una situazione di ageismo, quindi un settimo dei costi del sistema sanitario americano – si parla di più di 60 miliardi – è da ricondurre a questo tipo di discriminazione. Si aggiunga il fatto che a livello sanitario non si prendono a carico adeguatamente delle situazioni che potrebbero essere gestite in modo relativamente facile e che poi bisogna trattare una volta che sono più gravi e complesse. O passando al mondo professionale, si pensi al numero di persone competenti che perdono il lavoro e non riescono più a reinserirsi per l’età o vanno anticipatamente in pensione a causa di condizioni di lavoro discriminatorie o inadeguate. Anche qui si parla di diversi miliardi di franchi».

Categoria più variegata eppure maggiormente ridotta a pochi termini

La tendenza è di mettere tutte le persone di oltre 65 anni nello stesso calderone, ma il gruppo che chiamiamo di anziani è in realtà oggi quello più eterogeneo di tutta la società, mette in luce il professore: «È lì che si vedono le più grandi differenze in termini di percorso di vita, salute, condizioni sociali ed economiche, competenze, risorse. Col termine “anziani” copriamo un periodo di vita di 30 anni. Ci sono molte persone che godono di miglior salute rispetto ad altre più giovani. Che continuano a essere molto attive in svariati ambiti, da quello sessuale, a quello sociale o della formazione. Che hanno ancora responsabilità familiari. E il 15% è ancora attivo professionalmente». Eppure, dice Maggiori, «è il gruppo che più tendiamo a riassumere in pochi termini, in maniera negativa, senza riconoscerne le diversità. Uno dei grandi problemi degli stereotipi è proprio che annullano l’individualità».

Intervento necessario su vari livelli

La lotta all’ageismo passa da un intervento su più livelli. «In Svizzera sul piano giuridico sono punibili le discriminazioni per questioni religiose, di genere, di ordine etnico, ma attualmente il Codice penale non presenta nessun articolo relativo alle discriminazioni in base all’età, e qui bisognerebbe intervenire – afferma Maggiori –. È anche molto importante lavorare sul piano della formazione e in generale della sensibilizzazione, perché si tratta di un fenomeno troppo poco conosciuto, anche dalle vittime stesse. Le battute, il fatto di lasciare una persona anziana più a lungo in una sala d’attesa o ad aspettare al ristorante perché “tanto ha tempo”, quello di sostituirsi nella presa di decisioni, sono tutti atteggiamenti ancora socialmente troppo accettati e tendenzialmente ritenuti come normali». Oltre a campagne di sensibilizzazione con immagini e messaggi che possano scardinare gli stereotipi, «una pista molto valida da percorrere è quella di sviluppare progetti intergenerazionali che permettano a persone di varie fasce d’età di trovarsi a contatto», considera Maggiori, secondo cui «è questo il miglior modo per costruire una visione più corretta e attuale della vecchiaia. Ovvero di una grande fetta di popolazione ancora in grado di dare molto alla società».

In Ticino

‘Stiamo iniziando a sensibilizzare’

E proprio con l’intento di diffondere maggior consapevolezza sull’ageismo anche nella regione svizzera con il più alto indice di anzianità – il Sud delle Alpi –, il professor Maggiori ha tenuto una conferenza sul tema lo scorso 27 settembre a Muralto, invitato dal Consiglio degli anziani del Canton Ticino a chiusura degli eventi per il ventesimo di fondazione. «Io stessa ho incontrato la parola “ageisme”, impiegata da una sociologa romanda durante una giornata di studio a Berna, per la prima volta solo due anni fa. Si tratta di una realtà ancora troppo sottaciuta» conviene la presidente del Consiglio degli anziani Maria Luisa Delcò, che rileva: «Abbiamo iniziato a parlarne al nostro interno e a poco a poco stiamo cercando di far passare questo discorso per sensibilizzare la popolazione».

Nel frattempo Delcò ha scritto alcuni articoli sull’argomento e oltre alla volontà di invitare nuovamente il professor Maggiori per una conferenza, ha in progetto di realizzare un film d’animazione su ageismo, intergenerazionalità e solitudine da diffondere pubblicamente. «Bisogna smettere di considerare la persona unicamente in base all’età – afferma Delcò –. Siamo delle persone con dei vissuti, fatte di numerose altre caratteristiche, e vorremmo essere considerate nella nostra interezza. Senza riduzionismi e con rispetto».