La condizione disumana di chi non ha ottenuto l'asilo ma non può essere espatriato: bloccato anche per anni, non può lavorare né studiare
Senza statuto, senza speranze. Sono le persone in “aiuto d’urgenza”, bloccate in Svizzera dall’impossibilità di venire espulse in un Paese d’origine che ne impedisce il rimpatrio forzato e si ritrovano così confinate, anche per anni, in un limbo, in cui ogni possibilità di studio, lavoro e integrazione viene negata. Dando il via a spirali d’indigenza, mera sopravvivenza e disperazione.
Le storie, anche in Ticino, sono tante. Oggi riguardano oltre 130 persone (e più di 5’000 in Svizzera). Una, esemplare, è quella di una famiglia entrata in Svizzera 25 anni fa in provenienza dall’Algeria. La racconta l’avvocata Immacolata Iglio Rezzonico che, nell’ambito di una vicenda penale, tutela il più giovane dei figli, oggi 24enne: «Il nucleo era inizialmente formato da papà, mamma e due figli minorenni, cui si sarebbe poi aggiunto un altro fratello, nato in Ticino: il ragazzo di cui ora ho assunto la difesa».
La storia inizia dunque nel 2000, con una domanda d’asilo che viene negata; poi tutte le procedure possibili per un riesame vengono intraprese, ma senza successo. «Da 25 anni, per la Svizzera, c’è una sola soluzione possibile: quella gente deve andarsene. Il problema è che con l’Algeria non esiste alcun accordo per il rimpatrio forzato. Addirittura, durante alcune audizioni con le autorità consolari del loro Paese d’origine, ai genitori era stato detto che senza documenti non potevano essere riconosciuti come cittadini algerini e non v’era dunque la possibilità di ottenere dei lasciapassare né tantomeno dei passaporti per tornare in patria».
Questo era il prologo. Ma c’è anche un lungo e doloroso svolgimento: «Durante la loro ormai lunghissima permanenza (25 anni: una vita) in Ticino sono successe delle cose. Il primo figlio, quando è diventato maggiorenne, automaticamente è stato messo in carcere amministrativo, assieme al papà, che già in precedenza aveva subìto quel trattamento. Ai senza statuto capita: ogni tanto vengono presi e rinchiusi non per cause penali, ma amministrative. La loro colpa: non se ne stanno andando. E pazienza se anche volendo non potrebbero farlo. Per il ragazzo, che non aveva alcuna colpa se non il fatto di aver compiuto 18 anni, quella situazione si è rivelata troppo pesante. E ha tentato il suicidio. In seguito ha subìto dei ricoveri alla Clinica psichiatrica cantonale di Mendrisio e oggi si trova in una situazione oltremodo precaria, come del resto suo padre, che dopo più incarcerazioni amministrative è entrato in depressione». L’unica fortunata è stata la sorella, che ha sposato un cittadino svizzero e oggi ha il passaporto rossocrociato.
Il terzo fratello, quello nato in Ticino, «ha passato tutte queste vicissitudini come se accadessero a lui, comprese le incarcerazioni preventive dei parenti e il tentativo di suicidio del fratello. Una volta terminate le scuole dell’obbligo voleva, come tutti noi, fare qualcosa, iniziare un apprendistato. Ma essendo senza statuto è stato bloccato. Niente lavoro né eventuali ulteriori studi. Così ha cominciato a sbandare ed è finito in carcere per aver partecipato a una rissa. E qui la situazione diventa kafkiana, perché il giudice, condannandolo per la rissa, gli ha anche inflitto l’espulsione dalla Svizzera. La seconda! Ma che, come la prima, non potrà essere attuata. Parliamo di un giovane che la Svizzera vuole mandare via da 24 anni, ma che non sa dove andare. Dovendoselo tenere, il nostro Paese non lo considera una risorsa, ma lo condanna a una vita senza possibilità di formazione né di svago, in un contesto familiare devastato dall’immobilità e dall’indigenza, in cui inevitabilmente si sono infiltrati problemi mentali che possono portare alle estreme conseguenze, o a commettere, come in questo caso, reati penali».
Sono famiglie cui l’Ufficio dei richiedenti l’asilo e dei rifugiati (Urar), con l’aiuto d’urgenza concesso dopo il fallimento di tutte le procedure di regolarizzazione della permanenza, copre costi di alloggio e cassa malati e che devono vivere (mangiare) con 300 franchi al mese a testa. Se però vogliono provare a costruirsi un’autonomia economica non lo possono fare perché viene precluso loro il diritto allo studio o al lavoro, e questo anche nel caso in cui vi siano datori di lavoro disposti ad assumerli. In più, sono persone cui vengono imposti continui spostamenti e nuove situazioni, sempre all’insegna del precariato: dall’appartamento alla pensione, dal carcere amministrativo all’ospedale psichiatrico. Con pochi soldi in tasca e nessuna possibilità di guadagnarseli.
«L’assurdità – aggiunge l’avvocata – nasce già dalle decisioni della Segreteria di Stato della migrazione (Sem) o del Tribunale amministrativo federale (Taf) che quando prendono delle decisioni negative su persone che provengono da Paesi con cui non vi sono degli accordi di rimpatrio forzato, danno scientemente il via a quelle che io chiamo “torture di Stato” basate sulla Legge stranieri. Una Legge che a chi non collabora perché non se ne sta andando (perché non può) impone il carcere amministrativo, oppure una delimitazione territoriale, come ad esempio poter vivere soltanto in due determinati Comuni».
Un caso eclatante è quello di India, la ragazza nata nella fascia di confine fra Eritrea ed Etiopia, che prima di ottenere, 10 anni dopo il suo arrivo in Svizzera, l’applicazione del caso di rigore unitamente alla mamma e al fratello, proprio con la famiglia a un certo punto era stata confinata fra Morbio e Chiasso. «In quel caso pure era stata negata la domanda d’asilo e tutte le istanze si erano esaurite, così la ragazzina, terminate le scuole dell’obbligo, benché particolarmente brillante e portata per gli studi, non aveva più potuto fare nulla. Per fortuna in quel caso si era messa di mezzo la docente, che forte e chiaro aveva urlato tutta la sua indignazione». Lì, ricorda Iglio Rezzonico, «si era innescato quel movimento della società civile che può risultare importante ai fini di una risoluzione positiva. Nel caso di India, il rilascio dei permessi di soggiorno e l’inizio di una vita veramente da vivere in Svizzera».
Un caso simile è quello, recente, di Zelal e Yekta, sorella e fratello curdi per cui, con la famiglia, è pendente un rimpatrio forzato in Turchia (dove il padre rischia il carcere). La procedura dei due ragazzi è stata infine separata da quella dei genitori e del fratellino minore, che presenta problemi allo spettro autistico e frequenta la scuola speciale a Riazzino. Mamma e papà sono congelati nel limbo di un’attesa con poche speranze e non possono fare nulla, solo attendere non si sa bene cosa, entrando nel novero di chi non può ma rimane, e vive come se morisse: niente lavoro, niente studi, niente soldi, solo dolore.
Di questo tema, e della disumanizzazione di due leggi come quella sugli stranieri e quella sull’asilo, si occupa da anni il Collettivo R-esistiamo, che recentemente ha consegnato il testo di una petizione al Consiglio di Stato, cui presto si aggiungeranno le firme che verranno raccolte fra la popolazione ticinese. Due le richieste fondamentali: regolarizzare tutte le persone in aiuto d’urgenza, dando loro un permesso di dimora; e permettere la formazione obbligatoria, la continuazione della formazione a chi già si sta formando e quella dell’attività lavorativa a chi sta già lavorando.
Come? Applicando l’articolo 14 della Legge sull’asilo, che prevede che un richiedente, su richiesta del Cantone, possa ottenere un permesso di soggiorno se è in Svizzera da più di 5 anni e se si è in presenza di un grave caso di rigore personale in considerazione del grado di integrazione. Accettare l’abbandono, di fatto, di persone o nuclei familiari al loro destino, impedendo loro di costruirsi un avvenire “equivale a sostenere questo sistema che disumanizza le persone, che le condanna a una vita di seconda o terza categoria, che le condanna alla mera sopravvivenza anziché permettere loro di vivere”, sottolinea il Collettivo.