Tra i compiti svizzeri, considera la professoressa Schmid, ‘valutare i potenziali trasferimenti di tecnologia con l’industria degli armamenti israeliana’
«Alla luce delle poche informazioni disponibili sulla visita di Ignazio Cassis in Medio Oriente, quello che mi sento di dire è che un viaggio del genere per raccogliere testimonianze di prima mano sulle difficoltà nella distribuzione dell’aiuto umanitario e sugli ostacoli posti dallo Stato di Israele può essere sicuramente utile. Poi però è necessario che queste informazioni siano usate per elaborare misure concrete da parte della Svizzera per contribuire a porre fine all’inaudita sofferenza a cui è sottoposta la popolazione di Gaza e, allo stesso tempo, per cercare di fare tutto il possibile affinché pure la società israeliana — anch’essa profondamente traumatizzata dai terribili attacchi di Hamas — possa aspirare a una vita pacifica». È questo il parere di Evelyne Schmid, professoressa di diritto internazionale all’Università di Losanna, sull’inaspettata trasferta del direttore del Dipartimento federale degli affari esteri (Dfae) compiuta tra martedì e ieri in Israele e nei Territori palestinesi occupati per una visita ufficiale presso le autorità di entrambe le parti.
Una trasferta che, secondo il Dfae, era già programmata da tempo, ma che a detta di numerosi analisti sarebbe una risposta alla crescente pressione esercitata attraverso lettere aperte, petizioni, appelli e manifestazioni che da qualche settimana stanno rinfacciando a Cassis un’eccessiva passività di fronte alle violazioni di diritto internazionale in corso nella Striscia di Gaza a opera dell’esercito israeliano.
«Prima di parlare delle violazioni del diritto umanitario in quanto tale, bisogna evidenziare che lo Stato di Israele occupa in modo illecito un territorio che non gli appartiene», afferma Schmid, a cui ci siamo rivolti per un’analisi della situazione. «Ciò è stabilito nel parere consultivo della Corte internazionale di giustizia del 19 luglio 2024. Si tratta della conferma da parte del Tribunale delle Nazioni Unite – il suo organo giudiziario supremo – di quanto già noto da tempo: che la presenza di Israele nei territori palestinesi occupati non è legale».
Per Schmid questo, insieme all’espulsione dell’Unrwa – l’agenzia delle Nazioni Unite – da quel territorio da parte di Israele, costituisce la radice del problema attuale a Gaza riguardo alla distribuzione degli aiuti: «Intanto Israele, in quanto potenza occupante, in ragione del diritto umanitario ha l’obbligo di assicurare la protezione della popolazione civile. Questo comprende, per esempio, il fatto che abbia cibo a sufficienza, cure, acqua potabile. Ciò che evidentemente non avviene». Tra le critiche a Israele c’è anche quella di «far spostare in continuazione una popolazione traumatizzata che versa in condizioni terribili. E anzi, ci sono indicazioni che questi movimenti di popolazione siano coercitivi e inflitti in assenza di ragioni previste dal diritto internazionale coinvolgendo una popolazione che differentemente da altri conflitti armati non può fuggire. Sono queste alcune delle evidenze per cui si configurano le accuse di crimini contro l’umanità».
È bene rimarcare, specifica Schmid, che «dopo il massacro orribile e criminale di Hamas del 7 ottobre 2023 lo Stato di Israele aveva il diritto di reagire in maniera militare in quanto civili sul suo territorio erano stati attaccati. Ma il diritto umanitario pone dei limiti a ciò che è permesso fare in una guerra: lo Stato di Israele li ha superati».
Inammissibile, per la professoressa, è anche il fatto che Israele abbia come detto espulso l’Unwra dai territori palestinesi occupati: «Anche se è internazionalmente riconosciuto che l’Unrwa è l’unica struttura che dispone della logistica necessaria per fare in modo che la popolazione civile sia alimentata e curata, è stata messa al bando». Adesso c’è la controversa Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), organizzazione gestita da Stati Uniti e Israele che nelle ultime settimane ha distribuito cibo ai palestinesi della Striscia tra drammatiche scene di caos e bagni di sangue.
Al riguardo Cassis, in due interviste rilasciate la scorsa settimana a Rts e Rsi, giustificando il fatto che la Svizzera non aveva firmato una lettera sottoscritta da 22 Stati europei che chiedeva che gli aiuti umanitari a Gaza tornassero a essere gestiti da Nazioni Unite e dalle Ong, aveva affermato che tale missiva rappresentava “un processo alle intenzioni contro una fondazione di cui non sapevamo nulla” e che “ci sono stati spari, ma chi ha sparato e dove non lo sapremo mai”. «Il punto non sarebbe dovuto essere principalmente quello di questionare riguardo alla provenienza degli spari, ma sottolineare che non bisognerebbe mai arrivare a una situazione in cui persone disperate e affamate intente a ricevere cibo vengano uccise», commenta Schmid.
Nel frattempo peraltro, rileva la professoressa, il direttore esecutivo della Fondazione Jake Wood si era dimesso proprio per le critiche e controversie riguardo al piano di distribuzione degli aiuti nella Striscia. «Soprattutto le preoccupazioni rispetto al rischio di militarizzazione degli aiuti e la mancata osservanza dei principi umanitari fanno sì che non sia un’opzione collaborare con essa», ritiene Schmid.
L’esperta di diritto internazionale valuta negativamente anche che il direttore del Dfae abbia tacciato la presa di posizione delle 22 nazioni come “non neutrale”: «Anche per uno Stato neutro un impegno a favore del diritto internazionale non viola la neutralità».
Intanto ieri Cassis ha detto che la Ghf “pone un problema perché non segue i principi umanitari”, aggiungendo poi però che “secondo le indicazioni fornite da organizzazioni umanitarie e dal governo israeliano, li sta imparando”. Dal canto suo la Commissione della politica estera del Consiglio degli Stati ha chiesto al governo svizzero di astenersi da qualsiasi collaborazione diretta o indiretta con la Gaza Humanitarian Foundation, mentre il giorno prima, durante “l’ora delle domande” in Consiglio nazionale, lo stesso Consiglio federale ha espresso “serie riserve” sulle attività della Ghf. In tale occasione, sollecitato rispetto a vari aspetti relativi a Gaza, l’esecutivo «ha pressoché ripetuto le sue dichiarazioni del 28 maggio, piuttosto morbide, anche se – sottolinea Schmid – c’è una frase rilevante che dice: “In quanto potenza occupante, Israele assume, in virtù delle Convenzioni di Ginevra, una responsabilità particolare per la protezione della popolazione civile”». Per l’esperta è un concetto «importante da esprimere, perché anche le parole contano. Ma questo unito al viaggio di Cassis non significa che la Svizzera abbia fatto tutto il suo dovere. La situazione è drammatica e bisogna avviare un processo che porti a delle riflessioni approfondite».
Tra 17 e il 20 giugno a New York la Svizzera parteciperà alla Conferenza dell’Onu consacrata alla risoluzione pacifica della questione palestinese e alla messa in atto della soluzione a due Stati. «In vista di quel momento ci sono molte cose da preparare. Ci sono poi domande molto concrete alle quali la Svizzera deve ancora rispondere oltreché passi da intraprendere – indica la professoressa –. Per esempio, la messa in pratica del parere consultivo della Corte internazionale di giustizia dello scorso luglio implica per gli Stati un obbligo giuridico internazionale di non riconoscere come legale una situazione creata da una violazione grave del diritto internazionale, di non prestare aiuto né assistenza. Il Dfae ha fatto un’analisi di questo parere consultivo elaborando delle misure per la Svizzera che però non sono ancora state messe in atto. C’è inoltre l’obbligo, di fronte a tali violazioni, di non contribuire a mantenerle». Ora, a questo proposito, rende noto Schmid, «esiste la questione della collaborazione da parte svizzera con l’azienda israeliana Elbit, basata nel nostro Paese, nell’ambito della quale potrebbe potenzialmente esserci un trasferimento di know-how tecnologico che andrebbe anche in favore dell’esercito israeliano. Il tema è stato sollevato da un articolo sulla Wochenzeitung. Non so se sia così, ma è urgente chiarirlo al più presto. E nel caso ciò risultasse vero, bisogna interrompere immediatamente la collaborazione».
Schmid fa parte di una schiera di una quarantina di giuristi specializzati in diritto internazionale umanitario formatisi e/o praticanti a Ginevra che a fine dello scorso mese hanno inviato una lettera aperta al Consiglio federale e alle Commissioni della politica estera dell’Assemblea federale chiedendo di rispettare le loro tradizioni umanitarie di lunga data e adottare misure immediate e concrete per contribuire a porre fine alla sofferenza della popolazione palestinese. Nel testo, oltre a dirsi seriamente allarmati per le continue violazioni del diritto internazionale umanitario commesse a Gaza da parte di Israele negli ultimi 19 mesi – “bombardamenti indiscriminati, attacchi contro operatori umanitari, giornalisti, scuole, ospedali e sedi delle Nazioni Unite, punizioni collettive e l’uso della fame come metodo di guerra, tutti atti vietati dal diritto internazionale” – formulano otto precise richieste fra le quali figura quella di “adottare tutte le misure appropriate per garantire il rispetto del diritto umanitario internazionale, tra cui, ma non solo, sanzioni” e – per l’appunto – “una valutazione dei potenziali trasferimenti di tecnologia con l’industria degli armamenti israeliana”. Insomma, conclude Schmid, «la responsabilità della Svizzera e un suo impegno rispetto alla situazione a Gaza così come in altre parti dei territori occupati sono questioni tutt’altro che evase».