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Le ‘guerre perenni’ e il rischio che il presidente che diceva di volerle finire tutte vi resti invischiato

Le radici del coinvolgimento militare Usa in Medio Oriente risalgono al ’45: una storia di alleanze con Paesi dell’area e interventi spesso fallimentari

Donald Trump
(Keystone)
23 giugno 2025
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Se si vuole individuare una data in cui gli Stati Uniti hanno messo i loro riflettori sul Medio Oriente per arrivare fino a oggi, cominciando un rapporto stretto con vari Paesi dell’area e dando il via a vari interventi militari spesso non fortunati, lo possiamo fare facilmente: il 14 febbraio del 1945, poco più di ottant’anni fa. Lì si trovano le lunghe radici della situazione attuale che ha portato al bombardamento dei siti nucleari iraniani da parte degli Stati Uniti. Torniamo a quel giorno, mentre la Seconda guerra mondiale era ancora in corso: il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt incontrava il re saudita Ibn Saud, un regnante molto provinciale che per la prima volta in vita sua saliva su una nave, la corazzata Uss Quincy. Il meeting, avvenuto nel viaggio di ritorno dalla conferenza di Yalta insieme a Winston Churchill e Iosif Stalin, non era durato molto, ma fece sì che iniziasse un rapporto di stretta collaborazione tra i due Paesi: l’America nel dopoguerra avrebbe aiutato il Regno saudita a innovare la sua struttura statale e a trasformare le sue forze armate in un esercito moderno. Per questo gli Stati Uniti avrebbero ricevuto forniture di petrolio a basso prezzo. Greggio che peraltro era stato scoperto nella Penisola proprio da una società statunitense nel 1938, la Standard Oil of California. In quell’incontro molto cordiale, ci fu solo una nota stonata: Saud non accettò l’idea di uno Stato ebraico in Palestina, ma avrebbe preferito che fosse “in Baviera”.

Nel dopoguerra quindi, la politica americana si può sintetizzare in un sostegno incondizionato alle monarchie assolute simili all’Arabia, quali che fossero: Giordania, Egitto, Libia, Iraq e Siria. Anche per questa ragione, infatti, nel 1948, nel primo conflitto che scaturì alla nascita dello Stato d’Israele, di fatto non arrivò nessuno aiuto verso la nuova repubblica ebraica: nonostante il riconoscimento quasi immediato dell’amministrazione democratica di Harry Truman, troppa diffidenza per un Paese di chiara matrice socialista dove il partito di governo, il Mapai, aveva come simbolo una falce e martello stilizzata. Per anni, quindi, l’approccio americano al conflitto con i Paesi arabi era neutrale, mentre di converso il sostegno sovietico era tiepido ma attivo contro le “monarchie reazionarie”, così si leggeva sui giornali di Mosca.

La deposizione di Mossadegh

D’altra parte, gli Stati Uniti erano anche impegnati a contenere il comunismo nell’area, in ossequio alla dottrina stilata da George Kennan, diplomatico in servizio all’ambasciata Usa in Unione Sovietica. Per farla semplice, bisogna anticipare i comunisti in qualsiasi modo: così nel 1953 viene giustificato il colpo di Stato contro il governo del nazionalista moderato Mohammad Mossadegh, favorevole a una nazionalizzazione dei proventi del petrolio.

Lì per la prima volta la Cia e non i servizi segreti britannici fu la principale responsabile dell’esecuzione di un piano politico che da un lato avrebbe creato “un’isola di stabilità” (la citazione è di Jimmy Carter durante una visita a Teheran nel dicembre 1977), dall’altro una brutale dittatura autoritaria sotto le redini dello Shah che avrebbe posto le basi per la rivoluzione del 1979 che avrebbe creato l’attuale Repubblica islamica. Non che negli anni successivi alla deposizione di Mossadegh siano mancati gli interventi statunitensi: nel 1956 quello relativo alla crisi di Suez, con il canale che venne occupato dalle forze di Israele e dagli anglofrancesi a cui seguì un ritiro su pressione congiunta di americani e sovietici, di fatto segna la fine dell’influenza britannica nell’area in favore di quella targata Washington.

Intensificazione dei legami con Israele

Nel frattempo, l’intervento più significativo è rappresentato dallo stringersi graduale dei legami con Israele, mentre l’Unione Sovietica da parte sua si legava sempre di più ai movimenti laico-nazionalisti che si proponevano, come le monarchie che li avevano preceduti, di cancellare lo Stato ebraico dalle mappe. Non avvenne, ma due conflitti come la Guerra dei sei giorni nel 1967 e quella dello Yom Kippur nel 1973 rinsaldarono i legami con il piccolo Stato mediorientale: in cambio di una sicura presenza filo-occidentale nell’area, avrebbe ricevuto armi americane di fatto senza limitazione, arrivando persino a ottenere, primo tra tutti i Paesi del mondo, un trattato di libero scambio nel corso del 1985.

Ma è anche la Persia khomeinizzata a preoccupare gli Stati Uniti, tanto da spingerli al sostegno all’Iraq baathista di Saddam Hussein quando nel 1980 lancia una guerra proprio alla repubblica degli ayatollah. Nessuna cessione diretta di armi, troppo scomodo sostenere quello che già allora si conosceva come un dittatore sanguinario: ecco allora che arriva la vendita di materiale tecnologico civile utilizzabile anche per scopi militari, l’addestramento segreto delle truppe e il supporto sul campo dell’intelligence Usa. Principi che poi, dieci anni più tardi, verranno ribaltati in modo spettacolare dopo che Saddam invase il Kuwait, rendendolo la sua “undicesima provincia”. Un’operazione militare disfatta in modo spettacolare nel 1991 con l’operazione Desert Storm che all’epoca sembrò il suggello della fine della Guerra fredda e l’apertura di una nuova era di onnipotenza americana, che però risvegliò un latente terrorismo di matrice religiosa sunnita.

La nascita di Al Qaeda

Mille rivoli che si coagularono insieme per formare Al Qaeda, letteralmente “La Base”, che nel 2001 realizzò un catastrofico attacco sul suolo americano che iniziò una spirale micidiale per gli Stati Uniti: George W. Bush avrebbe scelto di intervenire prima in Afghanistan, che ospitava proprio le basi dove quell’attentato venne concepito, e lì poche nazioni ebbero da eccepire. Poi, successivamente, avrebbe lanciato una guerra sciagurata all’Iraq di Saddam, accusato senza prove di avere armi di distruzione di massa. Unica pezza giustificativa potrebbe essere trovata nella graduale islamizzazione di un regime nato laico che man mano stava sempre più aprendo le porte a una religiosità sunnita di comodo per consolidare il regime su base tribale. Troppo poco però per decidere di rimuovere un governo di Stato sovrano con i crismi del diritto internazionale: peraltro quel conflitto, dopo anni, finì con un ritiro avvenuto nel primo mandato di Barack Obama che ha avuto come risultato la trasformazione di quel Paese in alleato-vassallo dell’Iran.

Nemmeno in Afghanistan le cose sono andate meglio: dopo una costosissima occupazione militare, il governo sostenuto dalle armi statunitensi è collassato come un castello di carte dopo un ritiro pensato male (dalla prima amministrazione di Donald Trump) e attuato peggio (nel 2021 dall’amministrazione di Joe Biden). E il risultato è stata la restaurazione talebana, senza l’ostracismo diplomatico quasi completo che aveva avvolto il regime degli “studenti coranici” dal 1996 al 2001.

Le due attuali opzioni

E veniamo quindi a Donald Trump, che per molti anni ha fatto la sua fortuna politica sull’assunto che sarebbe stato il presidente che avrebbe fatto “finire tutte le guerre” volute dal cosiddetto “unipartito” composto da repubblicani neoconservatori e democratici istituzionali. Non è stato vero fino in fondo nemmeno nel suo primo mandato: impossibile dimenticare il suo sostegno assoluto con armi e finanziamenti all’intervento saudita nella guerra civile yemenita che ha portato al consolidamento del piccolo staterello non riconosciuto degli Houthi, fazione sostenuta proprio dall’Iran. Né la rischiosissima decisione di assassinare direttamente il generale iraniano Qasem Soleimani perché responsabile di alcuni attacchi contro l’ambasciata americana a Baghdad.

Ora Trump con questa scelta di farsi trascinare in questo conflitto senza pensare alle conseguenze ha davanti a sé due opzioni: tirarsene fuori quasi subito, come ha saputo fare Bill Clinton dopo l’Operazione Desert Fox in Iraq nel 1998, oppure andare avanti e rimangiarsi uno dei concetti chiave che hanno favorito la sua ascesa politica. Le “guerre perenni” potrebbero invischiare anche un presidente che proclamava di volerle finire tutte.