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Un ragazzo si toglie la vita: ‘Mamma, non è colpa tua’

Santiago, 19 anni, non vedeva una via d’uscita. Sua madre ne parla per trasformare una terribile perdita in consapevolezza sul diffuso disagio giovanile

Santiago, 19 anni, non vedeva una via d’uscita. Sua madre ne parla per trasformare una terribile perdita in consapevolezza sul diffuso disagio giovanile

10 settembre 2025
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“La mia decisione non è colpa tua, tu puoi vivere finché vuoi, ti do il pieno permesso, e soprattutto te lo auguro. Vivi per me se vuoi, finché non avrai le ali per volare via, via da questo mondo, ma eternamente al posto giusto”.

Sono le parole che Santiago ha lasciato in una lettera alla madre. Aveva 19 anni. A febbraio di quest’anno si è tolto la vita, lasciando un vuoto indescrivibile nelle persone che lo amavano e un disagio profondo in amici e compagni. «Sento la sua presenza ogni giorno – ci racconta la madre Susana Tavares che abbiamo incontrato a Lugano –. Lo sento vivo in ogni cosa che faccio, ovunque vado, e al contempo mi manca immensamente. Ho vissuto il peggiore incubo di ogni madre ma so che ci ritroveremo nel mondo spirituale, quando arriverà il momento. Intanto devo continuare a vivere la mia vita, anche per lui, imparare a essere sempre più presente e utile». Anche se questi drammi sono una via crucis per chi resta, Susana Tavares ha trovato la forza di rompere il silenzio. Lo fa nella Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, ricordando il malessere di suo figlio Santiago e il dolore di chi deve andare avanti.

La via dei farmaci e della spiritualità

Il lutto. Un dolore che divora, che spegne ogni energia e rende insostenibili i gesti più semplici: una doccia, una passeggiata, cucinare, lavorare. Tutto diventa grigio, privo di senso. «Hai due possibilità: la via psichiatrica degli antidepressivi o quella spirituale; per un po’ puoi sovrapporle, ma a un certo punto devi scegliere», racconta la madre. Lei ha scelto la via spirituale, affidandosi a strumenti di integrazione emotiva già acquisiti e al sostegno di un diacono, presenza fondamentale nei momenti più bui. «In una situazione così tragica hai bisogno di qualcuno che ti accompagni, che sappia ascoltare davvero. Al posto dello psicofarmaco ho trovato rifugio nella meditazione, nella preghiera, nella natura, nel respiro consapevole. Non per fuggire, ma per accettare, anche se doloroso, che Santiago non era più con noi», spiega la terapista olistica e maestra di yoga. Anche amici e parenti sono stati preziosi: chi la visitava o le scriveva ogni giorno, chi portava cibo, chi l’ha sostenuta o ascoltata al telefono. «Ho letto libri sul lutto che mi aiutano a gestire questo dolore lungo e difficile. Tutto, in qualche modo, serve», racconta.

Dal dolore all’associazione

Dal dolore è nato il bisogno di trasformare il vuoto in qualcosa di costruttivo: un’associazione “per un mondo più umano”, con un gruppo di sostegno pratico e spirituale per chi affronta un lutto. Una sorta di Sos lutto. «È già in fase di costruzione, per dare valore alla vita di mio figlio e perché la sua morte possa aiutare altri». L’associazione promuoverà anche iniziative di consapevolezza e crescita personale, rivolte soprattutto a giovani e genitori.

‘Quella sera si è arreso’

Qualche mese fa, quella sera di febbraio, Santiago è precipitato in un buco nero. Era esaurito, senza più forze e si è arreso: «Non avevo capito quanto stesse male – racconta –, non lasciava trasparire nulla. Purtroppo nessuno aveva capito. A gennaio sembrava persino positivo e lucido. Ma soffriva a scuola da anni: desiderava solo finire il liceo e andarsene. Non riusciva più a vedere una via d’uscita». Si ferma, sospira e aggiunge: «Eppure una via c’è sempre. Questo il messaggio che vorrei trasmettere. Dobbiamo imparare a fare le domande giuste, ad ascoltare senza giudicare. Nessun giovane dovrebbe arrendersi al mondo. Ogni ragazzo porta con sé una ricchezza che va accolta, non soffocata. Perché un suicidio, soprattutto quando riguarda un giovane, è sempre una sconfitta della società intera».

Parlarne è necessario

Parlare di suicidio resta difficile, eppure è necessario. In Svizzera, ogni giorno, tre persone si tolgono la vita: tre vite spezzate nel silenzio, tre famiglie segnate da un vuoto impossibile da colmare. Susana non aveva mai affrontato da vicino questo tema: «Pensi che capiti raramente e sempre agli altri, ma non è così. Santiago nelle ultime settimane dava segni di disagio: insonnia, stanchezza e un’ossessiva voglia di salvare ogni pianta, come se riflettesse la sua lotta interiore. Ripeteva spesso: “Dobbiamo avere speranza”, ma dietro i suoi occhi tristi era difficile capire cosa c’era». A 19 anni i ragazzi sembrano adulti eppure spesso hanno ancora tanto bisogno di sostegno.

‘A scuola si sentiva in gabbia’

Santiago da qualche anno aveva scelto di farsi seguire da una psicologa per condividere idee, discutere la sua “creatività soffocata” e i suoi personali disagi: il sistema scolastico “rigido”, il divorzio dei genitori, i rapporti sociali difficili. Secondo la madre soffriva di una forma di ‘depressione nascosta’ (formalmente però mai diagnosticata), legata innanzitutto – ci racconta – al disagio scolastico, con vari sintomi (ad esempio nausea, insonnia, stanchezza frequente).

Brillante ed estremamente sensibile, a scuola si sentiva “in gabbia”: «Mamma, qui soffocano la mia creatività e la mia libertà, questa non è vita». Trovava respiro tra le sue piante, nella cucina creativa, nella musica, nel teatro, nella natura.

A Lugano si sentiva stretto, eppure sapeva donarsi agli altri: nel volontariato, negli scout, con i bambini disabili, insegnando italiano ai rifugiati. «Era generoso e altruista, aveva il desiderio profondo di costruire un mondo diverso. Sognava di fondare una comunità alternativa, un luogo dove vivere in semplicità, secondo valori autentici, non per soldi, lusso o prestigio; vedeva il mondo degli adulti e la società occidentale come folle e deludente».

La tesi, il viaggio, l’insonnia

Mancavano solo pochi mesi alla fine del liceo e c’era ancora il lavoro di diploma da scrivere – un tema difficilissimo, ricorda la madre –, ma le pagine sembravano non arrivare mai, e intanto l’insonnia peggiorava, insieme all’ansia che gli stava addosso come un peso insostenibile. Eppure, davanti a sé, Santiago aveva un orizzonte luminoso: il sogno di un anno sabbatico in America Latina. «Stava mettendo via i soldi con pazienza – racconta sempre la donna –, voleva viaggiare, conoscere il terzo mondo, lavorare in cambio di vitto e alloggio, prima di iniziare l’università. Sognava di incontrare persone simili a lui, di vivere una vita più semplice: niente social, niente stress, solo natura, comunità, semplicità e autenticità».

Progetti pieni di vita e futuro, che purtroppo non sono riusciti a proteggerlo nel momento più buio. «A inizio febbraio – ricostruisce la madre – ha improvvisamente abbandonato l’idea del viaggio. Sembrava aver perso le ultime forze, quelle che forse gli servivano per finire la tesi di maturità. È stato tutto molto veloce… penso che, proprio quando aveva più bisogno di sostegno non ne abbia trovato abbastanza. Così ha deciso di arrendersi, senza condividere davvero il suo peso, i suoi dubbi e le sue delusioni».

Oggi la madre ripete un messaggio chiaro: «C’è sempre una via d’uscita, sempre». E invita soprattutto i giovani a non rimanere soli: «Molto spesso chi aiuta di più gli altri nasconde un bisogno di essere sostenuto».

Anche per questo motivo, Susana Tavares vuole creare un punto di ascolto incondizionato (“per essere presente, senza voler cambiare le persone”) e accompagnamento al lutto, creando un’associazione, per sostenere i genitori, i giovani, anche per arrivare alle scuole, dove «la pagella non deve essere tutto e non deve andare a discapito delle competenze umane».

Lo psichiatra infantile

‘Condividere un pianto, una carezza silenziosa’

Per ogni suicidio consumato ci sono 10-15 tentativi, e ancora più persone attraversano crisi profonde con pensieri ossessivi: ‘Non ce la faccio più’, ‘Che senso ha vivere?’. Non è follia, né debolezza, ma una condizione (gli esperti la chiamano ‘visione a tunnel’) che restringe la percezione, annebbia la lucidità, così i pensieri tossici vorticano e sembrano diventare più forti della volontà stessa. Chi soffre spesso fatica a parlarne, e chi lo fa non sempre trova ascolto. Accogliere queste confidenze può fare la differenza: il primo passo è parlarne. «Ogni 11 minuti un ragazzo pensa al suicidio. Parlare apertamente di questi pensieri dovrebbe essere una priorità in famiglia, a scuola, con allenatori o terapeuti: solo così si riduce il rischio che restino chiusi dentro, alimentandosi nella solitudine fino a poter diventare gesti estremi», spiega lo psichiatra e psicoterapeuta infantile e adolescenziale Domenico Didiano, che da anni lavora a Locarno dopo aver coordinato il servizio psicologico territoriale. Quando un adolescente pensa al suicidio è perché si sente solo, senza alternative al dolore. «I ragazzi oggi vivono a una velocità dettata dai social. Sono continuamente in altalena emotiva: un momento in cima, subito dopo in cantina, travolti dalla vergogna».

A tutto questo si aggiungono aspettative pressanti e modelli irraggiungibili: bisogna essere belli, popolari, avere successo subito. Ma basta un passo falso per sentirsi esclusi. Insomma, il terreno su cui costruire il senso di appartenenza è diventato instabile e insidioso come sabbie mobili: «Le amicizie online possono sparire da un giorno all’altro, i punti di riferimento non sono più genitori o insegnanti, ma idoli lontani come rapper o trader milionari. Una pressione enorme che rende i ragazzi più vulnerabili e insicuri». E allora, cosa possono fare i genitori? «Prima di tutto ascoltare, accogliere, restare vicini. Dare spazio al dolore dei figli senza giudicare, legittimare le loro emozioni, anche quando non trovano parole. A volte basta condividere un pianto, una carezza silenziosa, un tempo insieme che non corre». Su un punto lo specialista insiste: «Non ci sono colpe». Fermarsi non è semplice. «Ma proprio fermandoci nella relazione e nella presenza possiamo toccare la fragilità più intima degli adolescenti. E accompagnandola, questa fragilità può trovare una via d’uscita».

Qualche informazione

Non tenersi tutto dentro ma chiedere aiuto

Nei momenti di fragilità come l’assillo di pensieri suicidari è importante non tentennare, non sottovalutarli e chiedere aiuto prima di non avere più l’energia per respingerli. Allungare la mano insomma e lasciare che qualcuno ti tenga. Oltre al medico di famiglia e terapeuti specializzati, c’è il Telefono Amico (tel. 143 e 147 per giovani in crisi) dove è possibile parlare in forma anonima. Aiuta avere una rete, un punto di appoggio, nei momenti più acuti, quando non si riesce più a pensare con lucidità. Diverse informazioni e materiale sono disponibili su www.parlare-puo-salvare.ch. Sul territorio ci sono possibilità per elaborare il lutto, da colloqui individuali a percorsi dentro gruppi di auto aiuto con un facilitatore tra persone che parlano la stessa lingua e vivono lo stesso dolore: li organizza ad esempio l’associazione Debriefer della Svizzera italiana (Debrisi).