Lo hanno paragonato a un imperatore romano, a Hitler, a Mao. Eppure sfugge a una catalogazione: come ogni rivoluzionario gioca con regole tutte sue
Cinque secondi: questo è quanto, secondo le ricerche di Netflix, uno spettatore impiega a decidere se un film o una nuova serie gli piacciono o no. La notizia qualche tempo fa ha fatto il giro del mondo e deve aver raggiunto anche Donald Trump, palesemente convinto che il medesimo principio, fatte le debite proporzioni, si applichi anche a un presidente.
A poco più di un mese dal suo insediamento per un secondo mandato, infatti, l’iniziativa presidenziale procede a ritmi da binge watching distopico: immigrazione, burocrazia, Medio Oriente, tasse. Nel breve volgere di 35 giorni Trump ha già scampanato il gong di tutte le promesse di una campagna elettorale che dura di fatto da un decennio, e dove non è stato possibile lo ha fatto lo stesso. I giornali americani si sono scolpiti in homepage le parole, “ordine esecutivo di Trump” sapendo che ogni mattina c’è da cambiare solo la parte che viene dopo, come nei cartelli “days without accident” delle segherie. Se poi qualche giudice dirà che non si poteva fare, si vedrà se cambiare l’ordine esecutivo. O il giudice.
La tecnica comunicativa in realtà è ben nota ed è stata teorizzata più volte in pubblico da Steve Bannon, il Rasputin di Trump: fare una bella “cura Ludovico” a media e opposizioni, azzerando i tempi di reazione e rendendoli docili e storditi come Alex DeLarge nel finale di Arancia Meccanica.
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Con quella faccia un po’ così... nel ritratto ufficiale
Molto meno chiara appare la strategia reale di Trump. Cosa vuole davvero quest’uomo? Un nuovo ordine mondiale? Una dittatura? Fare altri memecoin per diventare ancora più ricco? Si fanno analogie con grandi personaggi storici, talvolta forse un po’ come gli ubriachi coi lampioni nella vecchia battuta di Andrew Lang: non per esserne illuminati, ma per esserne sostenuti. Chi lo ama vede in lui il profilo invitto di un imperatore romano, chi lo detesta gli disegna i baffetti di Hitler, qualcuno lo ha paragonato persino a Mao. Il problema probabilmente è a monte: noi proviamo a capirlo studiando le grandi partite di scacchi del passato, ma questo gioca a ping pong.
Lo stesso vale per la guerra in Ucraina, di cui ieri è caduto il terzo anniversario, sebbene qui la prima analogia che viene in mente sia quella di una partita a Risiko in cui il giocatore più forte dopo aver assediato la Kamchatka fino a tarda notte riveli improvvisamente che il suo obiettivo era far fuori i carri armati gialli, e tutti se ne vanno a dormire ripromettendosi che non giocheranno mai più. Come molte delle mosse di Trump, l’alleanza de facto con Putin sembra allo stesso tempo ovvia e inconcepibile. Un oltraggio, oltre che a centinaia di migliaia di ucraini che hanno perso la vita, alla nostra capacità di capire il mondo, perfino al modo in cui usiamo le parole di tutti i giorni.
Quando Trump promette di portare la pace in Ucraina, e in un certo senso ha ragione, ci forza a riconsiderare il modo in cui usiamo la parola “pace”. Quando accusa l’Ue o Zelensky di non avere un mandato democratico forte come il suo, e di nuovo a un certo livello puramente elettoralistico non ha tutti i torti, ci sfila da sotto la testa il cuscino del concetto di “democrazia” su cui riposavamo sereni da 80 anni. Forse ha ragione chi dice che Trump non è un politico, è un rivoluzionario, e per fare le rivoluzioni prima di tutto si riscrivono le enciclopedie. L’impressione è che chi vuole provare a fermarlo debba accettare di farlo su quel terreno, se no il rischio è finire come una serie di Netflix con l’inizio fiacco: fuori dall’algoritmo.
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Socio di Putin per i suoi detrattori