Dazi geopolitici: gli strateghi che circondano Trump sanno che l’egemonia del dollaro (e degli Usa) è sostenuta soltanto dalla supremazia militare
La guerra – direbbe uno come Milton Friedman, abituato com’era a confondere le cause di un problema con la forma in cui questo si manifesta – è sempre e ovunque un fenomeno politico. I devoti della setta monetarista non avrebbero trovato motivi per dubitare della bontà di una tale affermazione, compresi quelli che in Ticino si dimostrano sempre pronti a celebrare le “virtù” del bullismo diplomatico di Donald Trump (in particolare i pensionati di un certo prestigio che si intrattengono a commentare l’attualità internazionale su qualche foglio amico). Fatto sta che pretendere di disgiungere, in sede di analisi, l’agenda geopolitica degli Usa dall’offensiva commerciale a suon di dazi portata avanti dall’amministrazione americana, implica incorrere in una fallacia paragonabile, per ottusità, a quella sull’inflazione partorita dal padre del monetarismo.
Gli storici amano le date come gli economisti i numeri. Per provare ad arrivare a una qualche conclusione qui ne andrebbero considerate almeno tre: 22 luglio 1944, firma degli accordi di Bretton Woods; 15 agosto 1971, abolizione del gold standard; 15 settembre 2008, fallimento di Lehman Brothers. Questi tre momenti chiave della storia economica contemporanea sono quelli indicati da Yanis Varoufakis nel suo volume ‘Il Minotauro globale’, libro in cui l’economista greco spiega il percorso che ha portato per prima cosa, dopo la Seconda guerra mondiale e contro la volontà di Keynes, all’adozione del dollaro americano come valuta mondiale di riferimento. L’abbandono della parità aurea invece sancisce la consacrazione del capitalismo finanziario, il periodo in cui inizia a prendere forma il meccanismo di riciclo dei surplus – il Minotauro globale – che consentirà agli Stati Uniti di supportare nel tempo i suoi deficit gemelli (fiscale e commerciale), permettendo poi con il passare degli anni alle varie oligarchie (cinese, araba, russa, europea) di trasformarsi in esportatori netti di prodotti verso gli Usa, creditori degli americani attraverso il massiccio acquisto di titoli del Tesoro, e pure investitori che gonfiano i listini di Wall Street. Il paradigma della finanziarizzazione estrema – la favola del denaro che crea denaro – subisce però una “ferita terminale” con la crisi del 2008, scrive Varoufakis. Quasi due decenni dopo siamo ancora lì: col Minotauro moribondo, ma senza alcun modello di riciclo degli eccedenti in grado di rimpiazzarlo.
Gli strateghi che circondano Trump sembrano aver capito la posta in gioco. Soprattutto sono consapevoli che dal 1971, scomparsa ogni parvenza monetaria, l’egemonia economica statunitense è sostenuta e sostenibile soltanto grazie alla supremazia militare. Sanno inoltre che la reindustrializzazione e la sicurezza sono strettamente legate, come spiega in un recente report Stephen Miran, capo dei consiglieri economici della Casa Bianca. La politica dei dazi può dunque essere vista come una sorta di ricatto, oppure di escamotage. Una scorciatoia che potrebbe indurre nel breve termine – quale effetto collaterale – una recessione, che a sua volta costringa la Fed a tagliare i tassi di interesse. Tuttavia un vero ribaltamento della bilancia commerciale appare un obiettivo assai lontano. Risulta invece più verosimile pensare che il Trump-bis, sostenuto dalla tecno-oligarchia di Musk & co, punti a raggiungere un nuovo “salto evolutivo”, tecnologico e armamentista, che gli consenta di persuadere le élite globali che il dollaro (ergo, la Pax americana) continua a essere il miglior – l’unico possibile – guardiano del valore.