A guidare l'agire e la comunicazione dell’élite economica-politica-mediatica cantonale è un particolare senso di appartenenza (ovvero, di proprietà)
Gli economisti Spartaco Greppi e Christian Marazzi hanno ragione: lo Stato non è una famiglia. Non una soltanto: in Ticino “sono” circa una trentina, accomunate da un senso di appartenenza (ovvero, di proprietà) che guida l’agire e la comunicazione dell’élite economica-politica-mediatica cantonale. Non può spiegarsi altrimenti l’avversione all’indebitamento pubblico quale strumento mirato a promuovere lo sviluppo della collettività; tanto meno il ricorrente riferimento al ‘buon padre di famiglia’ al momento di dibattere sul ruolo economico dello Stato.
A ribadirlo forte e chiaro sono stati in questi giorni un politico di spicco, un aspirante a politico di spicco (ad oggi passacarte di un altro politico di spicco), nonché i presidenti delle corporazioni economiche: se lo Stato (noi) deve incarnare l’interesse collettivo (il nostro), dovrebbe comportarsi come ogni genitore (sempre noi), cioè cavandosela con i propri mezzi (sempre i nostri). Un’affermazione che denota una visione nettamente individualista, arcaica e patriarcale della società – e in quanto tale paragonabile all’idiosincrasia tipica del feudalesimo – in cui un intreccio di relazioni clientelari orienta le attività dello Stato, ridotto in una tale concezione alla mera somma delle sue parti fondamentali, ovvero le nobili famiglie. È per questo che una discussione soltanto economica, che ignori le premesse sociologiche sulle quali poggiano certi discorsi, rischia di rimanere monca. Hobbes, Spencer, Smith: ci sono tracce un po’ di tutti i teorici dell’individualismo più estremo nei vari interventi che contestano con fermezza l’idea di un’entità collettiva super partes tesa a garantire il bene comune, uno Stato in grado di agire secondo una razionalità diversa – ma complementare – a quella delle sue parti costitutive.
Ma la questione è anche economica. Ed è sintomatico che a sostegno delle loro tesi i vari esponenti locali del neoliberismo chiamino in causa l’evoluzione del debito pubblico pro capite, allarmati dal suo incremento. Argomento fallace: il peso dell’indebitamento va misurato in funzione della ricchezza che uno Stato è in grado di produrre. Un rapporto, quello tra debito e Pil, che in Ticino è rimasto perlopiù stabile nell’ultimo decennio, oscillando tra il 6 e il 7 per cento del prodotto interno lordo. Un indicatore parecchio (troppo?) più basso rispetto alla media internazionale, riguardante un debito che a onor del vero non andrà “ripagato dalle future generazioni” bensì sostenuto, idealmente tramite un circolo virtuoso di crescita economica con inclusione sociale.
Tuttavia il riferimento all’evoluzione del debito pro capite è suggestivo, e parla chiaro della stagnazione demografica del nostro cantone (vedasi il rapporto Ustat sugli scenari 2024-2050): se il debito pubblico rispetto alla ricchezza prodotta presenta una progressione lineare, ma paragonato al numero di abitanti la crescita si dimostra esponenziale vorrà pur dire qualcosa. Azzardiamo un’ipotesi? Sì, ma attraverso la storia: soffocati dalle pretese signorili sempre maggiori, a partire dal XV secolo i servi della gleba fuggivano verso le rinascenti città facendo traballare la base economica dell’egemonia feudale. La reazione conservatrice implicò la rinuncia a delle prerogative decentralizzate per favorire la costituzione del cosiddetto Stato assoluto, un potere unico e autoritario teso a garantire la sopravvivenza dei privilegi aristocratici.
A qualcuno per caso risulta che l’élite nostrana abbia mai tentato di erodere la solidità dell’ente pubblico, salvo poi appellarsi al suo provvidenziale intervento nei momenti di bisogno?